Suoni di campanacci. Intervallati dal silenzio. Vento da nord, teso, a raffiche. La terra, l’erba, le fronde degli alberi sono intinte nel verde tenero della primavera. Querce, aceri, biancospini in fiore, orchidee. Dal cielo, pioggia. Esitiamo in un tempo sospeso: fra l’ombra delle nubi e la luce che si fa strada ad est. Come monaci errabondi ci avviamo sul sentiero. Avvolti nelle giacche invernali. Intimiditi dal furore panico che ci sovrasta. Ancora incerti se rinunciare o meno. Ma ad ogni passo il sole espande la sua forza invitta. Straccia le nubi. Percorre le montagne: a ondate, che scivolano rapide sulle cime, le pendici, le valli. All’orizzonte la barriera di nubi abbacinanti s’infrange, come un esercito in resa.
Siamo partiti, stamani, da M. Iurentino. Per tutto il viaggio in auto fin qui è piovuto. I primi passi a piedi li abbiamo fatti sotto una pioggia sferzante ed un cielo plumbeo. Ma confidavamo nella battaglia fra luce ed ombra, fra cielo e nuvole, che ora rende tragico e splendido il paesaggio della Sila Greca. Sulla cima di M. Iantrìnico, dopo avere attraversato un bosco rado di querce ed eriche fiorite: a picco sul Trionto, l’abitato di Longobucco; sopra, le fitte pinete di M. Altare. Silenzio anche qui, rotto solo dall’ululato del vento.
Lasciamo la stradina forestale e ci inerpichiamo su per un ripido costone sgombro di vegetazione arborea. Sostiamo spesso, per osservare intorno. Sulla destra serpeggia la valle del Vulganera, ammantata di lecci, costellata di pareti di roccia e di frane. A mezza costa, sotto di noi, gli antichi coltivi di Ennerà con la vecchia Casa Vulcano. Una quercia ustionata dal fuoco, ma ancora viva, si protende nel vuoto, sul profilo di Serra Pigliaspica. Giungiamo così nell’area sommitale di Colle d’Arvi, dove iniziano i rimboschimenti di pini. Dell’antico bosco rimane solo un enorme pino di quasi cinque metri di circonferenza, roso nel tronco da una nera caverna scavata dai pastori. Più sotto, querce, ontani, aceri si sono ripresi naturalmente ciò che i pascoli e i coltivi avevano sottratto loro.
Rientriamo dalla stradina forestale, rivolti a nord-est, in vista delle giogaie della Sila Greca, che scendono verso la costa di Rossano e Corigliano. Attratti dai pianori di Ennerà, deviamo dal percorso e scendiamo in quello che fu per secoli una delle zone meglio coltivate dagli abitanti di Longobucco. Ecco l’antica mulattiera con la quale contadini e pastori dal paese salivano quassù. Un enorme pioppo sradicato si è abbattuto su Casa Vulcano e giace obliquo, pencolante. Le rovine di una casa di pietre e fango campeggiano al centro di un castagneto secolare. Ancora silenzio, che racconta il legame perduto fra uomini e luoghi, di come i luoghi siano stati, un tempo, trepidamente umanizzati, sottratti al dominio incontrastato della natura. In un’epoca, però, in cui erano gli uomini a doversi adattare alla natura. È per questo che ogni vecchio segno antropico produce armonia. Solo con l’avvento della tecnica moderna l’uomo ha preteso che la natura si adattasse ai suoi interessi, al suo genio. E la pretesa è divenuta sfida, delirio antropocentrico. I suoi sono i segni della dismisura. Che per fortuna, quassù fanno difficoltà a giungere.
Di questa mutazione epocale parlano i libri Eugenio Turri, grande geografo ed antropologo del paesaggio scomparso nel 2005. Uno di questi s’intitola “Il paesaggio e il silenzio”. È qui che Turri teorizza l’idea di un “paesaggio perduto”: il paesaggio rurale, un tempo fuori dalle mura delle città, “che saldava l’opera umana alla natura”. E discute di “morte del paesaggio”, di quel lutto, cioè, avvenuto dopo che per secoli gli uomini di un dato luogo, di un dato paese, si erano rispecchiati nella natura circostante, riconoscendovi gli antichi segni della propria cultura, della propria comunità, dell’armonia fra appartenenti ad uno stesso mondo.
Ecco, oggi, a M. Iurentino, a M. Iantrìnico, a Colle d’Arvi e infine fra le case, i coltivi di Ennerà, nel silenzio avvertiamo, il canto di quegli uomini e quelle donne, come forse, molti dei loro discendenti neppure immaginano. Quel paesaggio, infatti, non sopravvive più, neppure nelle rappresentazioni che di esso si danno gli abitanti, oggi immersi nell’atopia, nell’assenza dei luoghi. Esso si trova solo in certi silenzi sopravvissuti alla degradazione frenetica e bulimica della modernità. Modernità che, attraverso la domesticazione massiva, la spettacolarizzazione mediatica, perfino la riparazione artificiosa (i rimboschimenti), vuole assoggettare la natura all’invincibile genio dell’uomo. Come a dire: non preoccupiamo del fatto che la tecnica tutto possa distruggere, tanto il genio dell’uomo tutto potrà riparare. Non resta che immergersi, allora, e sperdersi, come abbiamo fatto oggi, nel paesaggio del silenzio. “È l’unica forma di religiosità rimastaci – conclude Turri – per risollevarci dal greve livello di materialità e di illusione del nostro tempo”.