Africo. Voci dal silenzio.

Non è un luogo come altri. È, innanzitutto, un luogo di dolore. Di cui aver cura. Sul quale piangere e pregare. Rammentando sempre le parole di Mircea Eliade: “ogni luogo è un centro del Mondo”. Africo e Casalnuovo, le loro montagne sono luoghi di una bellezza struggente. Ma sono anche il simbolo di un intero popolo che ha patito la tragedia dello sradicamento. Dalle terre ancestrali, dai pochi beni posseduti, dal lavoro, dalla dignità. In un luogo così si entra con rispetto. Non si va per far divertire i turisti. Non si va con pregiudizi, con sentenze già scritte, per fare scoop giornalistici. Vi si cerca, invece, la verità. Levi Strauss, già negli anni trenta, fu drastico, riferendosi ai primitivi dell’Amazzonia: “posso rassegnarmi a capire il destino che vi distrugge, ma non lasciarmi ingannare da questa magia tanto più meschina della vostra, che brandisce, davanti a un pubblico avido, gli album di foto a colori al posto delle vostre maschere ormai distrutte”.

La prima volta che raggiunsi le rovine di Africo antico, fu verso la fine degli anni ottanta. Percorremmo un sentiero fra le querce, senza alcuna indicazione. A quel tempo, avevo letto, certo, i testi di Umberto Zanotti Bianco, di Tommaso Besozzi, di Corrado Stajano. Avevo letto “La teda” di Saverio Strati, che ad Africo antico lavorò come muratore. Ero rimasto impressionato dalle foto di Tino Petrelli, pubblicate nel 1948 sull’Europeo. Quelle erano, per me, “la verità” sulla miseria di Africo, sull’alluvione, sull’evacuazione forzata, sul trasferimento di uomini e donne nel nulla di un pantano vicino al mare, ad una distanza incolmabile dal loro tutto. E quella verità mi riempiva l’animo di compassione. Ma forse, la compassione è l’ultimo sentimento che gli Africoti desideravano. Perché, pur nella povertà, avevano fierezza e dignità, chiedevano giustizia.

Giungemmo fra le case dirute. Ci aggirammo fra i vichi, osservammo le murature di pietre, gli squarci che mostrano interni devastati, le vedute sulla pendice oltre il vallone, quella ove era Casalnuovo, i tanti oggetti poi depredati dai cercatori di souvenir. Era d’autunno. Le fronde dietro una casa mi parvero uno schizzo di sangue contro il cielo livido di nubi. E c’erano animali, che scorrazzavano fra le case. Andammo oltre la chiesa, vedemmo il cimitero devastato, la chiesetta di San Leo. Infine salimmo sull’altura di Puntone Casazri, in una distesa di arbusti secchi e spinosi. Con sotto le gole dell’Aposcipo e dinanzi Monte Iofri.

Povertà non significa inciviltà. Arretratezza non equivale a brutalità. Essere analfabeti non vuol dire non avere cultura. Se ne accorse lo stesso Zanotti Bianco che, dopo aver sempre parlato della miseria degli Africoti, in una lettera del 1954 alle autorità chiedeva che fossero aiutati a restare nei loro luoghi, perché lì avevano, invece, i coltivi, gli animali, il lavoro! E le stesse cose scrisse il comandante dei Carabinieri di Reggio Calabria nel 1956 in un rapporto alla prefettura. Ma gli Africoti dovevano scontare le loro “colpe”: l’essere ribelli, l’essere, molti di loro divenuti “comunisti”, l’avere assaltato la caserma dei Carabinieri per via di un torto subito, l’essere troppo lontani dalla civiltà come la si intendeva allora. E con la deportazione in massa sulla costa, la loro fierezza venne obliterata, la dignità cancellata, la giustizia negata.

Ora lo so. Ora ho finalmente capito. Quelle rovine non sono semplici macerie. Parlano invece. Ma sono ancora troppo pochi coloro che ascoltano i loro racconti. Ed anche gli Africoti, dopo essersi convinti che lassù vi era una storia da cancellare, dopo aver creduto alle verità degli altri, dovranno risalire le gole e i monti, ritornare là dove è il loro centro del Mondo, imparare a riconoscere le voci del silenzio. Solo così, smetteranno di aver vergogna. Solo così potranno riscrivere la loro storia, tornare ad essere fieri, ottenere la giustizia negata. E per me, come per Pasolini, “basterà che sulla faccia della gente torni l’antico modo di sorridere, l’antico rispetto per se stessi, la fierezza di essere ciò che la propria cultura povera insegnava ad essere.”

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