“Ad Africo c’è gente che non soltanto non ha mai visto un treno o un’automobile, ma neppure una carrozza a cavallo. Bisogna che arrivi la strada fin su; che i contatti col mondo civile diventino facili e più frequenti; che questi pastori annichiliti dalla loro miseria comincino ad incuriosirsi, ad imparare che c’è un’altra maniera di vivere molto diversa e migliore. Allora, certo si sveglieranno”. Così concludeva, Tommaso Besozzi il suo articolo su Africo per il giornale “L’Europeo” del marzo 1948 (prima che l’alluvione del 1951 provocasse l’esodo forzato di un intero popolo). Un articolo breve, lugubre, lapidario. Che liquidava una comunità di duemila anime, una civiltà contadina e pastorale come tante ve n’erano, all’epoca, in Europa, come una accozzaglia di comatosi in attesa di essere rianimati da un neruropsichiatra. Eppure, avendo visitato di persona, insieme al fotografo Tino Petrelli, quella comunità, Besozzi avrebbe dovuto accorgersi che uomini e donne vivevano tutti del loro lavoro quotidiano e non certo di sussidi (anzi, si intimava loro di pagare perfino le tasse sulle capre, si impediva ai mulini a palmento la macinazione del grano, si imponevano gravi divieti di qualunque utilizzo dei terreni boscati), che i due villaggi scontavano l’isolamento non certo per scelta ma perché nessun governo si era mai preoccupato di costruire strade che li collegassero alla costa (benché Africoti e Casalnoviti le rispettive strade avevano pur tentato di farsele da soli), che ogni metro quadro di terra fertile era coltivata ove consentito, che molti altri terreni avrebbero potuto esser messi a coltura se fossero stati eliminati i divieti, che valli e montagne erano un dedalo di terrazzamenti, sentieri, mulattiere, canali irrigui, tratturi, che migliaia di capi di bestiame venivano condotti al pascolo ogni giorno, che quella gente scambiava periodicamente prodotti con i paesi sia del versante ionico dell’Aspromonte che di quello tirrenico. Come aveva già testimoniato Manlio Rossi Doria nel 1929 con in una dettagliata inchiesta economica sulla zona commissionatagli dall’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia dell’amico e maestro Umberto Zanotti Bianco. Perché, allora, i toni di condanna senza appello dell’articolo? Ce lo rivela un altro passo di Besozzi: “Venne una frana che minacciò di travolgere l’intero abitato. Si decise allora di trasferire il paese in blocco, in una località vicina, più salubre e riparata. Tutto era stato studiato ed approvato; su un altipiano boscoso dove c’era terreno fertile ed acqua sufficiente, sarebbe sorto un paese modello ed il vecchio villaggio, con tutte le sue brutture, sarebbe stato fatto saltare con la dinamite; era la vigilia dell’inizio dei lavori, quando per l’opposizione dei piccoli proprietari e l’abulia degli altri, il progetto si arenò”. A parte la totale inesattezza di questa narrazione, resta il fatto che per Besozzi il vecchio villaggio di Africo era una “bruttura” da far saltare con la dimanite e che gli abitanti erano tutti riottosi ed “abulici”. Viene il sospetto che Besozzi fosse stato inviato laggiù con un compito preciso: dimostrare all’Italia che usciva dalla guerra e che doveva risollevarsi grazie ai soldi degli USA (il Piano Marshall era stato annunciato nel 1947), che realtà come quella di Africo erano una palla al piede per qualsiasi tipo di sviluppo.
Sennonché, le sue parole vennero smentite clamorosamente proprio dalle foto di Petrelli (benché il giornale, di quaranta ne pubblicò soltanto cinque!), il quale non si limitò a fotografare la promiscuità fra umani ed animali nei “sordidi abituri” o l’aspetto sciatto di vecchi e bambini (così come gli era stato probabilmente chiesto di fare), ma pur ignorando qualunque aspetto della vita lavorativa di quella gente, nei campi, nei boschi, nei pascoli, riprese alcune scene di vita familiare che stridevano con le affermazioni di Besozzi. Vi sono due foto, ad esempio, che dimostrano come il rancido pane di mischio di cui parla l’articolo non era il solo che si mangiasse ad Africo, ma che vi era anche consumo di pane di frumento: le foto con le donne che impastano il pane di frumento e fanno la sfoglia per la pasta di casa. E vi sono altri scatti che dimostrano come nella comunità non vi fossero solo depressione ed abulia ma anche momenti di gioia e di tenerezza, di lavoro anche nelle case: le foto di adulti e bambini che stanno attorno al fuoco e suonano strumenti da loro stessi costruiti, il matrimonio, il lavoro al telaio etc.
Scrisse bene nella presentazione al libro di Grisolia Editore del 1990 – che proponeva, fra l’altro, le foto di Petrelli – il compianto Quirino Ledda, propiziatore di una mostra presso la Camera del Lavoro di Africo nuovo, quando osservò: “Un compito non facile quello che dovette affrontare Tino Petrelli; poteva offrire una rappresentazione della realtà calabrese che ripercorresse la strada tradizionale della illustrazione stereotipata, e invece le fotografie di Petrelli si pongono sul terreno che gli antropologi definiscono dell’osservazione partecipante […]. Essa ha il merito di sottolineare la necessità per il ricercatore/fotografo di essere coinvolto nel flusso della vita quotidiana dei protagonisti”. E quasi a conclusione del suo scritto ci lasciò questa frase dal sapore profetico: “Le fotografie che vengono qui proposte parlano della vecchia Africo e sono, a mio parere, un contributo alla rifondazione della memoria e del radicamento culturale e sociale degli attuali giovani di Africo e di quanti altri vivono la loro stessa condizione”. Facciamo dunque in modo – gli odierni abitanti di Africo in primis – che queste foto, e le altre di Zanotti Bianco del 1928, una volta riacquisite al patrimonio della Calabria e del Sud, ci spronino per batterci, tutti insieme, per una rigenerazione delle nostre società con radici ben salde in ciò che siamo realmente stati.
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