S’affretta, l’acqua, fra le pietre. Come umore che cola dall’utero della valle. Tintinnio di cristalli. Trasparenze di smeraldi e rubini. Un manto color porpora ricopre il suolo. Il fiume è al centro della scena, nell’ombra. Sulla sinistra, il tronco di un grande faggio con il suo velluto prezioso, inondato dal sole. Tutt’intorno la foresta, vigile, ferma, in attesa. Sono il primo del nostro piccolo gruppo a giungere laggiù, deviando dal cammino stabilito, per osservare quell’arazzo policromo, vivo, palpitante.
I nostri occhi, assuefatti agli artifici delle città, non sono più capaci di “vedere” un fiume che scorre nella foresta. Solo in posti remoti come questo certi “quadri della natura”, come avrebbe detto il grande geografo Alexander Von Humboldt, si rivelano. Celati fra i monti, in recessi dimenticati, perduti alla memoria degli uomini.
Vigilia di Natale. Siamo giunti presto, stamane, a Colla dei Pecorari, milleduecento metri di quota, nel cuore delle Serre di Calabria. Scesi nella foresta di faggi ed abeti bianchi. Lunghe diagonali e stretti tornanti sul sentiero. Guadi di ruscelli che spumano fra le rocce. La visita ad una comunità di alberi monumentali: abeti enormi, misteriosamente sopravvissuti ai tagli. “Il re degli alberi” – come nel commosso libretto di Acheng -, il nostro inatteso “albero di Natale” è un grande abete a candelabro nel centro della comunità. Non è un simbolo consumistico, come gli abeti dagli addobbi sgargianti che abbiamo visto nelle piazze e nelle case. È, invece, testimonianza vivente di potenza. Una ierofania, un manifestarsi del sacro. Secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade: l’albero “è verticale, cresce, perde le foglie e le ricupera, e di conseguenza si rigenera (muore e risuscita). […] Con la sua semplice presenza (la potenza) e con la propria legge dell’evoluzione (la rigenerazione), l’albero ripete quel che è il Cosmo tutto intero per l’esperienza arcaica.” Nulla più dell’albero – aggiungo io – è segno dell’amplesso generativo impresso sul mondo dal divino. Situazione, questa, che, non a caso, si ripete anche nel mito cristiano.
Poco oltre, nel momento in cui il sentiero piega a sinistra per salire verso un diverso contrafforte, ecco la traccia in senso opposto, che scivola, invece, ancor più in basso. Devio, arrendevole come un innamorato. Qualche centinaio di metri nel bosco, il suono delle acque sempre più chiaro, un rialzo erboso nel terreno ed ecco l’affaccio sul fiume: mobile nell’immobile; limpido nell’opaco; sonante nel silenzio. È il quadro perduto che ero destinato a cercare, ritrovare, “vedere”. Il fiume è un altro simbolo numinoso, quello dell’“eterno divenire” di Eraclito: l’acqua che scorre non è mai uguale. Ma anche quello dell’“eterno ritorno” di Nietzsche: l’acqua del fiume va al mare e dal mare evapora nel cielo e dal cielo ricade sulla terra, compiendo il “grande cerchio”, il tempo ciclico degli antichi. E le acque, per Eliade, sono “fons et origo (fonte ed origine), la matrice di tutte le possibilità di esistenza”.
Nel tornare per un’altra via, riguadagnato il crinale, fra i rami spogli compare lontano l’abitato di Elce della Vecchia, costruito per ospitare gli evacuati dai villaggi dell’alta valle della Fiumara Assi (che più in basso accoglie le acque del Mula) dopo le alluvioni dei primi anni Settanta del Novecento. E mentre congetturiamo altre ricerche, altri ritrovamenti proprio nella Valle dell’Assi, ecco apparire, come per incanto, le rupi che ricordavo dalle volte precedenti: grandi massi di granito sovrapposti, fessurati, lisciati, a volte sormontati da dita, becchi ed altre forme strane. Spuntano dal suolo, conferendo alla foresta un’aura di sacralità, come in certe zone della Bretagna e dell’Inghilterra con i loro megaliti. Le pietre: ennesime ierofanie, anzi cratofanie, ossia manifestazioni della potenza del soprannaturale. Anche qui Eliade: “Per la coscienza religiosa del primitivo, la durezza, la ruvidità e la permanenza della materia sono una ierofania […] non v’è nulla di più nobile e di più terrificante della roccia maestosa, del blocco di granito audacemente eretto”.
Senza prevederlo, abbiamo compiuto una piccola Odissea nello spazio sacro, in un luogo rimasto silente per secoli e che improvvisamente ha cercato nuovi mediatori con il soprannaturale, nuovi ministri di un rito che lo risvegliasse. Un luogo sacro, infatti non viene mai trovato ma si fa trovare, non è mai scelto dall’uomo ma scoperto. E la scoperta è sempre effetto del richiamo del luogo sull’uomo e della sua autorivelazione. Dalle acque fluenti umori di vita, agli alberi eretti che rigenerano, alle rupi dure e potenti: tutti i simboli del numinoso, senza il suo timore, senza il suo tremore.