Timpa di San Lorenzo: nuvole e nostalgia

Nubi avvolgono le cime dei monti. Formazioni basse, plumbee, compatte. Un’ombra livida invade ogni anfratto. L’effetto è drammatico. Il cielo mette in scena il dolore. Per ricordare agli uomini che il dolore esiste. Anche se la nostra civiltà tende a nasconderlo. Salvo dove il dolore dà spettacolo, fa audience. Saliamo verso le balze rocciose della Timpa di San Lorenzo. Incerti se la rappresentazione sarà durevole o se, invece, il cielo si riterrà pago d’averci solo intimoriti.

Manco da quassù da una tempestosa mattina del 2018. Pochi giorni dopo la tragedia del Raganello, allorché un’onda di piena si prese dieci vite nel canyon. Venni dove la piena si era originata, per riconciliarmi con il dio del fiume. La mattina del disastro, altre nubi deviarono, improvvisamente, dal percorso prevedibile e si scaricarono sulla testata della valle che circonda, come un immenso imbuto, il corso del torrente. L’onda di piena percorse ferocemente le gole, si gonfiò oltre misura, piombò inavvertita sull’uscita del canyon, a Civita. Il dolore giunge senza mai avvertire.

Anche il giorno della disgrazia, dunque, e quello della mia visita di riconciliazione, le montagne erano sovrastate da nubi. Esattamente come oggi. Il dolore, ancorché nascosto, ha sempre bisogno di esser messo in scena, di essere ritualizzato, per consentire la sua elaborazione. E il cielo sopra il Raganello è un po’ drammaturgo, un po’ sciamano.

La mia psiche valuta le coincidenze, senza che la parte cosciente della mente se n’avveda. È per questo, forse, che oggi mi sento inquieto. Ma, grazie ai miei compagni di viaggio, l’elaborazione inizia. Passo dopo passo, il timore si trasforma in stupore, l’inquietudine in gratitudine, la malinconia in sorriso. Il cielo se ne accorge. Fa spazio fra le nubi con le sue grandi braccia paterne. Scorrono fiumi di luce fra le vele rigonfie. La calotta grigia levita in alto. Si scoprono piano le pendici dei monti, poi le foreste, poi i crinali, infine le cime biancheggianti di neve del Pollino. Avanziamo ora sul filo della timpa, una cresta rocciosa e glabra che, ad ovest, precipita vertiginosamente, per centinaia di metri, verso il fondovalle del Raganello. In uno squarcio di cielo un’aquila fa la “ruota” su una corrente ascensionale. A sud, contro il mare lucente, la mole inconfondibile del Sellaro, il monte santo di queste popolazioni, dove si venera una madonna disegnata sulla pietra. In basso, verso est, l’ultimo, piccolo paese prima delle montagne: San Lorenzo Bellizzi.

Dunque, il cielo ci lascia osservare il paesaggio dall’alto, dalla cima di questa gigantesca montagna di roccia che si protende oltre i 1600 metri di altezza, come un’immane onda pietrificata. Placato nell’animo, ridiscendo dal monte. Ci attende il Santuario di Santa Maria dell’Armi. Qui si leniva il dolore delle “proiette”, le orfanelle esposte sulla terra perché la Madonna (che di Gea è prosecutrice) desse loro ricovero e futuro.

Il giorno finisce col suono della zampogna, che tocca corde profonde. Ci sono anche l’organetto e il tamburello. I giovani ballano la tarantella. Mi sovviene “La terra del rimorso” di Ernesto De Martino, dove il grande storico delle religioni registra e interpreta gli ultimi relitti del tarantismo in Puglia, il rito coreutico-musicale che serviva a guarire dal loro “dolore”, con la musica ed il ballo tradizionale appunto, donne afflitte da un asserito (ma non riscontrato) morso di ragno. In realtà quel rito era esattamente uno degli ultimi esempi di guarigione dal dolore dei momenti critici della vita nelle civiltà contadine arcaiche.

Accenno qualche passo di danza anch’io. Mi sento goffo e irrigidito rispetto a quei giovani che volteggiano agilmente, a braccia aperte, facendo la ruota, come l’aquila nel cielo stamattina. Voglio mostrare la mia partecipazione al loro rito, pure così contaminato dalla modernità. I giovani non lo sanno, ma stanno mettendo in scena l’elaborazione del dolore. Quei suoni iterativi e struggenti, quel roteare nel ballo, sono un rito che lenisce la nostalgia, il dolore (algos) del ritorno (nostos), il desiderio struggente di chi è lontano da un luogo amato, da una condizione di grazia. Laddove nostos non è solo ritorno ma anche racconto (mythos) fondativo di un luogo denso di relazioni, di una condizione attiva, non rassegnata. Quei giovani concludono la tragedia andata in scena al mattino sopra la Valle del Raganello: per un giorno, il cielo si fa uomo e mostra le ferite delle nostre anime incise sul suo corpo.

Iscriviti alla Newsletter