Sono Pietra Cappa, Regina d’Aspromonte. Così mi chiamano. Ma a me l’appellativo non piace: di re e regine ne ho conosciuti tanti, troppi, nella mia lunga vita. Venivano qui, si appropriavano di boschi, prati, coltivi, fiumi, montagne, mandrie, greggi. E lasciavano solo briciole per il popolo minuto. Possedevano magazzini pieni di roba e per la gente dei paesi, delle campagne, delle montagne, restava poco o nulla. Sino a non molto tempo addietro è andata così. E anche quando i vecchi padroni hanno perso molti dei loro privilegi, ne sono arrivati di nuovi. Dove c’è gente estremamente povera, c’è sempre il signore di turno, che domina e profitta. Ed è proprio questo il brodo di coltura di ogni forma di ribellismo, di ogni violenza appiccicata come uno stigma sulla gente di quaggiù. Se così non fosse, se pensassimo, invece, che ribellismo e violenza non avessero nulla a che fare con secoli di dominio e prepotenza, dovremmo dar credito a chi ha sempre sostenuto che la nostra sia una “razza maledetta”.
Non ti vedevo da un bel po’ d’anni, mio caro amico. Ricordo quando venivi quassù e trascorrevi ore a parlare con Sebastiano, il pastore delle mie dirimpettaie, le Rocce di San Pietro. Lui suonava per te i fischiotti di canna, ti mostrava le capre chiamandole per nome una per una, riconoscendo il suono dei singoli campanacci, ti raccontava antiche fiabe. E tu lì a fissarlo commosso, come se prima di quell’incontro non avessi mai realmente conosciuto il mondo, il tuo Mondo, le tue radici, le tue origini. Poi un giorno ti sentii parlare di uno dei nostri, nato a Careri, Francesco Perri, che, dopo una vita da anti-fascista, travagliata e grama, era diventato un famoso narratore ed aveva scritto libri bellissimi. In uno di questi ci sono anch’io. Racconta Perri (lui mi chiamava Pietra Kappa) che fui visitata perfino da Gesù e dagli Apostoli.
Oggi sei venuto con i tuoi amici, salendo da Natile vecchio. So che volevi venire dai Piani di Livadoce, lungo la stradina che parte dal Camposanto. Dove sono sepolti i morti dell’alluvione che spazzò via le case e si prese anche i pastori sorpresi negli stazzi fra le montagne. Il paese fu evacuato, ma alcuni dei nostri rimasero e lo ricostruirono, casa dopo casa. Ancora oggi vivono qui, nel vecchio abitato. Silenzioso e lento come le nuvole nel cielo. Dolce come le melodie di Sebastiano. Tenero come gli agnellini appena nati. Duro come il legno delle querce. Umile come Gesù e gli Apostoli.
Ma a Livadoce non sei andato. Perché c’erano i tuoi amici da tenere al sicuro. Ed hai fatto per loro il percorso più facile. Ho avvertito il loro stupore quando hanno veduto le mie grazie, quando sono giunti sotto la mia imponenza. Non credevano ai loro occhi. E c’era altra gente quel giorno. Una coppia di stranieri, che era giunti sino a me chissà come e perché. Poi un anziano gelataio di San Luca che aveva fatto fortuna in Germania ed ora trascorre gran parte dell’anno quaggiù provando a recuperare il tempo perduto, ri-conoscendo i luoghi dell’infanzia dai quali fuggì. E poi un bel gruppo di escursionisti guidati da una giovane donna. E poi un altro gruppo più piccolo guidato da un altro vecchio amico di Platì. E poi i corvi, ed i gheppi, e i falchi, e i cinghiali. E, nascosto da qualche parte, un discendente del Lupo Kola di cui parlò Perri in un altro dei suoi libri.
Ora, Francesco, io sono contenta che dopo “gli antichi”, gli eremiti che si arrampicavano sui miei fianchi, i pastori, i contadini, i cavalieri erranti, dopo l’ultimo degli antichi, Sebastiano, siate voi i nuovi amici che venite a trovarmi. Ma, ti prego, non dimenticare chi siamo davvero io, le mie sorelle rupi, la gente che è rimasta i questi luoghi solitari e remoti. Siamo i relitti di tre virtù perdute: umiltà, coraggio e dignità.