Alcuni anni fa, creai per me ed i miei sodali di cammino la “Compagnia degli Erranti”, emanazione dell’“Ordine Pedestre dei Camminatori Erranti”, che, a sua volta, è una comunità monastica dispersa fra le montagne della Calabria e della Basilicata. Non ho mai scritto una “regola”. Ma da qualche tempo ho iniziato a pensare che per far parte della compagnia si debba essere, innanzitutto, dei disadattati. O forse, più precisamente, “ipo-disadattati”: nel senso di non riuscire ad adattarsi del tutto alla realtà che ci circonda.
Un tempo la parola “disadattato” era usata in senso spregiativo verso coloro che mostravano segni di “follia”. Sebbene per me la follia sia quella di Erasmo, ossia il vivere con passione. Se esistesse ancora la distinzione che Umberto Eco propose fra “apocalittici” e “integrati”, noi erranti apparterremmo decisamente alla prima categoria: ci smarriamo con grande facilità nel “villaggio globale”, ma siamo in grado, invece, di ritrovare la via fra le montagne.
In psicologia “disadattato è chi non ha compiuto il normale processo di adattamento all’ambiente socio-culturale circostante e si trova in conflitto con esso”. Noi erranti siamo proprio così! Ad esempio, non ci capacitiamo come violenze, ingiustizie, prevaricazioni possano dominare le nostre società, o come gli esseri umani si siano trasformati in burattini proni agli ordini di pochi potenti: di fatto pensiamo che la realtà è più raccapricciante di qualunque romanzo o film distopico. Disadattato è anche il nostro eroe, don Chisciotte della Mancha, “il pazzo più simpatico che ci sia nel mondo”, come disse don Antonio, rimproverando il Cavaliere della Bianca Luna per aver sconfitto don Chisciotte allo scopo di farlo rinsavire. Ed è per questo che erriamo (verbo che significa, emblematicamente, anche sbagliare): per smarrirci dal mondo e cercare un altro Mondo, un “meta-mondo” nel quale rispecchiarci. E per scongiurare il tentativo, sempre in atto, di “normalizzarci”.
Ovviamente quell’altro mondo non esiste. E noi lo sappiamo bene. Eppure continuiamo a cercarlo nella Natura, che è sempre stata, per la civiltà, un’antagonista da soggiogare, da cancellare. Lo cerchiamo un po’ come si cerca l’isola di “Utopia” di Tommaso Moro. Perché proprio al cospetto di paesaggi meravigliosi, selvaggi, poco umanizzati, non completamente ridotti alla volontà dell’uomo, ci si riempie il cuore di speranza: una sola specie, tracotante ed insolente, non potrà averla vinta su tutto e sul Tutto; ed i nuovi Sapiens civilizzati e moderni non riusciranno a normalizzare gli ultimi selvaggi anti-moderni.
Un errante non è realista. Semmai è un inguaribile idealista. Non è illuminista. Semmai è un romantico. Non è violento. Semmai resiste. Non è duro. Semmai è tenero. A suo modo crede nel sovrannaturale, di cui ha prova quando contempla la Natura. Un errante è sobrio, rispettoso, pacato. Un errante è sensibile e, per ciò stesso, malinconico. Sebbene conservi sempre quella piccola dose di pragmatismo che gli occorre per sopravvivere nel mondo reale. Non è per nulla ottimista verso i successi della specie umana, ma neppure completamente pessimista: perché altrimenti non avrebbe senso vivere. Piuttosto, confida nel genio della Natura, al quale importa la conservazione della vita, ma non anche quella delle vite dei singoli individui. Gli unici lussi ai quali l’errante anela sono lo spazio, il tempo, il silenzio. Quando è immerso in questa dimensione “quantica” – e può esserlo solo se è in cammino fra le montagne -, l’errante conosce finalmente la gioia, e comprende che essere felici – e disadattati – è possibile. Anche solo per un piccolo, breve, eterno istante.