Vento d’autunno fra le rupi. Scivola sulle pietraie, sfila furtivo fra gli alberi, invade il mio corpo sudato e ansimante. Sole d’oro che riscalda il mondo. Un mondo sospeso fra cielo e terra, dove non viene più nessuno. Un mondo che l’uomo ha riconsegnato alla natura. Sbuco dal bosco incantato come un capriolo timido, ingenuo, stupito. Nella luce di Piano Pallone, dopo tre ore di ascesa. Dapprima nella Conca del Re. Poi nella gola dello Stiavucca, poi sui rilievi ad est di Timpone Campanaro. I pascoli, i coltivi che per secoli hanno sfamato tanta povera gente sono deserti, silenziosi. Gli alberi li stanno riconquistando. Le rupi sotto la cima occidentale della Manfriana sono mura di una città di pietra; le pareti e i picchi di Serra Dolcedorme un arazzo policromo dove l’autunno ha sparso la sua tavolozza: il rosso dei faggi; il giallo degli aceri; il verde dei pini artigliati alla roccia come uomini fuggiti dal mondo, rifugiati in piccoli eremi di pietra, malinconici e solitari, epigoni di un tempo che scompare lentamente, che si disfa nell’aria come la polvere delle montagne.
A volte vorrei essere una creatura semplice, un animale, un albero. Per soffrire senza domandarmi perché. Per gioire senza illudermi. L’uomo ha troppa fede nella ragione. La creò lui, per dare ordine alle vite; per distinguere il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, il bene dal male; per dare un senso a tutto. Animali e alberi, invece, non posseggono la ragione. Eppure vivono. Sofocle dice: “dolcissima è la vita nella completa assenza di senno”. Il perché lo spiega Erasmo nel suo famoso “Elogio della follia”: “la saggezza consiste nel farsi guidare dalla ragione, mentre, al contrario, la follia consiste nel lasciarsi trascinare dalle passioni”. E ancora: “Nessuno è infelice quand’è in armonia con la sua natura […]. In realtà, come non è infelice il cavallo che ignora la grammatica, così non è infelice l’uomo per la sua follia”. E Platone fa dire a Socrate: “la follia che viene dagli dei è più bella della saggezza che viene dagli uomini”.
Ma perché la follia viene dagli dei? Perché – ricorda Umberto Galimberti – a differenza degli uomini gli dei sono immortali. Sicché non hanno bisogno di spiegarsi la vita, di dare un senso alla morte, di raccontarsi favole per esorcizzare il mistero dell’esistenza. Dunque della ragione degli umani non saprebbero che farsene. Agli dei compete piuttosto la follia, ossia il gesto non retto da significati univoci, che ignora il principio di non contraddizione. La verità è che nulla è solo questo e non altro: il bicchiere che ho tra le mani è un bicchiere, ma se lo scaglio contro qualcuno è un’arma; la Luna è un corpo celeste, ma per Leopardi è una creatura misteriosa a cui chiedere “che fai tu Luna in ciel, che fai silenziosa Luna?”
Oggi sono nel regno di follia, in una dimensione onirica, libera da ogni razionalità. Sono in un luogo che non è governato dal principio di non contraddizione. Qui, qualunque cosa suscita significati diversi da quelli che emergono dal suo aspetto sensibile: gli alberi sono eremiti, gli animali folletti, il cielo azzurro la cupola di un’immensa cattedrale. Lo sono a partire dal mio cuore che, presagendo tempesta, vorrebbe incatenarmi, immobilizzarmi. Lo sono perché è il mio demone ad avermi trascinato quassù, a suggerirmi altri significati. Lo sono perché ero atteso dal luogo e da quella follia divinatrice che viene dagli dei. Quando s’avvererà la profezia, la luce smagliante diverrà buio, queste foglie così vivide saranno humus, questo cielo si oscurerà. Per una fine che sarà anche un nuovo inizio.