PIANO GRANDE: NELLA MIA FINE, NEL MIO PRINCIPIO

Primi freddi di questo strano autunno. Solo venerdì sera, stremato dal lavoro, ho avuto il tempo per informarmi sul meteo del fine settimana. La perturbazione proveniente dal Mediterraneo occidentale si sposta rapidamente verso il Sud Italia: previsti temporali quasi ovunque, soprattutto per domenica. Il nord-ovest della Calabria, solo per sabato mattina, sarà più riparato, ma in ogni caso ad alto rischio. Poiché sono in crisi di astinenza, non posso rinunciare ad un’uscita: camminare in montagna è per me un’attività libidica. La libido non è solo il desiderio nel sesso. È “il desiderio”, punto. In questo – e in molto altro – mi sento profondamente junghiano. Per Carl Gustav Jung la libido è la totalità dell’energia psichica, non solo quella sessuale. Essa indica un impulso che non è controllabile da alcun tipo di autorità esterna. Decido, quindi, di infilarmi, il sabato, nell’unica finestra di tempo meno incerto. Non avendo avuto il tempo di pensare a qualche nuova esplorazione, opto per una mia classica: l’anello delle Montagne di Masistro, nei Monti dell’Orsomarso. Al mattino presto, a Campotenese nebbiolina umida e brina gelata. Sul cielo di quella che fu la porta d’ingresso nelle Calabrie, banchi di nubi minacciose.

Sono inquieto per il meteo. E fra le mie letture mi sovviene Duret de Tavel, ufficiale dell’esercito napoleonico, che agli inizi dell’800, scrive nel suo diario di aver visto morire, proprio a Campotenese, diversi soldati in una tormenta di neve. Ma il desiderio, come diceva Jung, non contempla interdizioni esterne. Resta solo il mio allerta interiore, ossia il temere che il desiderio possa tracimare nella catastrofe. Nei giovani quasi mai è attivo. Negli adulti, invece, gioca un ruolo fondamentale: è l’elemento che ti porta a rischiare pur mantenendo un certo grado di prudenza. Troppa prudenza, però, deprimerebbe la funzione libidica. È l’eterna lotta fra “eros” e “thanatos”, amore e morte, desiderio e annichilimento, di cui parla Sigmund Freud in “Al di là del principio del piacere”.

Primo segno beneaugurante: un piccolo gruppo di caprioli si muove a lungo sopra di noi, al limite fra le pietraie e la faggeta, durante tutta la risalita dell’erta fra Piano Caroso e il monte omonimo. Quando siamo in cresta il cielo mostra un ampio ovale sgombro di nubi, circondato da un cappio plumbeo. La luce che ne scaturisce è intensa e drammatica: uno di quei quadri fisici che si trasformano subito in uno stato di inquietudine interiore. E non è mai chiaro se sia il quadro ad influenzare l’animo umano o non sia invece l’animo umano a costruire la visione. Prima di sbucare oltre la cresta, metto in fila gli amici e li faccio prendere per mano: voglio che avanzino tutti insieme e vedano all’unisono quel che c’è oltre. L’effetto è quello desiderato: muto stupore di tutti, interrotto solo dal lieve flautare del vento che acquieta l’energia scatenata dai nostri corpi. La veduta che attendevo si apre all’improvviso: il grande abbraccio delle creste pietrose di Masistro accerchia l’enorme conca erbosa di Piano Grande, almeno un km di diametro, duecento metri più in basso. Un lago di velluto verde punteggiato di rupi, massi pietre di grigio calcare sul quale si muovono mandrie al pascolo. Dopo un lungo momento di raccoglimento, pieghiamo a destra, verso Cozzo di Barbalonga, iniziando il nostro pellegrinaggio in quota.

Questo lungo orlo circolare (un vero e proprio anfiteatro orografico) consente visioni dal Pollino ai monti della Basilicata e della Campania ma anche verso i gruppi montuosi contermini: un complesso di piramidi pietrose solo apparentemente desertificate dai diboscamenti. In realtà, ampi lembi di faggete si estendono ancora sui fianchi dei monti. Ma le sorprese botaniche maggiori si trovano nelle pieghe degli impluvi, che somigliano a certi tratti dei corpi umani. L’umidità che vi alligna nutre gruppi di alberi, come oasi create da qualche popolo berbero. Tra essi, aceri giganteschi, che non comprendi perché siano stati risparmiati dagli uomini. Attraversati lentamente Cozzo l’Ancella e Il Tabaccante, ci caliamo, in silenzio, come selvatici, nel rosso lucente della faggeta. Alberi si ergono giganteschi. Uno di questi era forse il più maestoso faggio che abbia mai incontrato. Lo troviamo schiantato in terra da un cataclisma. Qualcuno riesce ad infilarsi interamente nella cavità del tronco. Si dovrebbe lasciarlo lì dov’è, perché rinasca piano nella terra, nell’erba, nei fiori e nei piccoli animali fitofagi.

Dopo una breve sosta, riprendiamo a salire ma sul lato opposto della conca, impegnando la cresta di Timpone del Vaccaro. È qui che vivono altre due creature che paiono uscite da una saga di Tolkien. Innanzitutto il più grande carpino nero che sia rimasto in Calabria, tozzo e nocchieruto, che protende ancora i rami verso il cielo. E, poco oltre, un grande arco naturale di pietra forgiato dall’erosione. Rientriamo lungo il sentiero sotto Serra Ambruna, stanchi ma in estasi. E il tempo, ancora una volta, ci ha graziati. È così che vuole il desiderio: non vi è salvezza senza pericolo; non vi è estasi senza turbamento; non vi è “eros” senza “thanatos”. La bellezza struggente di questi luoghi senza tempo mi colma di nostalgia, la malinconia del ritorno: sono qui, fremente di desiderio eppure pago, nella mia fine, nel mio principio.

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