Oggi avrei dovuto e voluto essere lassù, fra le querce e i draghi, le nebbie e l’arcobaleno, il nevischio e il sole. Perché così è la terra perduta di Africo antica in Aspromonte. Così sono i luoghi che vivono nel cuore dei suoi figli raminghi per il mondo. Per l’ennesima volta, in questi ultimi due anni, qualcosa si è messo di traverso e me lo ha impedito. Dentro mi rimane una piccola fiamma. Timida e incerta, come quella di fronte alla quale scrivo, stamane. Mi sono alzato che era ancora buio. Ho acceso il fuoco, confidando nell’ordinata disposizione che, sin da ieri, avevo dato alla legna. Ma ora rimane solo una fiammella, che non riesce a svilupparsi. Sono costretto a inginocchiarmi dinanzi al camino, nonostante la mia schiena dolorante, sciogliere piano la piccola catasta, recuperare la legna più piccola e secca, rimetterla in ordine, trovare dell’altra carta, ridare vita al fuoco, con la fiamma miracolosa di un fiammifero, oggetto così infimo eppure essenziale.
Avrei dovuto e voluto essere lassù, dunque, con Pietro, con Pasquale, con Gioacchino e gli altri che tengono viva la memoria dei luoghi. Hanno organizzato un incontro per parlare esattamente di questo: riattizzare la fiamma nel camino, impedire che il fuoco buono e caldo languisca e si estingua. Dovevo esserci, ma qualche acciacco di troppo me lo impedisce. Intanto la luce è giunta. Libero Matisse, il gatto di casa, ed esco con lui sulla veranda dove gli ho messo un po’ di cibo. Piove, il cielo è plumbeo: penso che anche per questo era prudente non partire. Ma fra le fronde dell’Anello di Querce, verso sud, intravedo le montagne oltre l’Istmo e, poco più a destra la sagoma perfetta dell’Aspromonte. Mi prende un gran senso di colpa.
Preparo la mia colazione, la frutta, l’orzo, il miele. Ma il mio cuore è lassù, per la ripida strada che da Bova sale verso la montagna, lungo lo stretto Passo della Zita, per i tornanti che calano verso l’Amendolea, sulla sterrata che porta al Rifugio di Carrà, fra le rovine di Africo antica. Avrei detto poche cose: che insieme sottraemmo l’Aspromonte alla maledizione; che i suoi luoghi, le sue comunità hanno accolto tanti forestieri, in questi anni, trattandoli come fossero dei sotto mentite spoglie; che abbiamo rotto le catene del pregiudizio; che tuttavia rischia di prevalere il nichilismo, l’invidia, il disamore di chi ci vorrebbe sempre sottomessi, assistiti e infelici; che occorre vigilare e agire … esattamente come per il fuoco del camino di stamane.
In queste terre dure ma nello stesso tempo tenere e malinconiche non bisogna mai arrendersi al fatalismo. Come i due innamorati appartenenti a due famiglie nemiche de “Il temporale d’autunno” di Alvaro. “Sembrava che qualcuno alle loro spalle li scacciasse da un regno felice, incontro ad un dolore sconosciuto, ma che finalmente questa era la felicità.” Questo pensavano gli amanti del racconto di Alvaro, mentre fuori dal loro rifugio in montagna imperversava la tempesta. “L’acqua si mise a scrosciare interminabile, frustata dai fulmini, ne era piena ogni accidenza della terra. La nuvola larga calata sulla montagna la stacciava furiosamente all’ingiro, si allungava a sorvegliare il torrente che andava verso il mare, preso da una fretta disperata. Le prospettive false create dai baleni e dagli strappi improvvisi delle nubi simulavano regni lontani e profondi”. Come gli amanti di Alvaro, sempre dovremo agire come se quei regni lontani e profondi fossero reali e vicini.