Ce l’ha scritto in volto: “Guardatemi, sono una vostra cugina del Nord. Sono civile, moderna, figa, calabrese solo per qualche giorno d’agosto. Son dovuta scendere per dovere per questo safari nelle terre selvagge. Altrimenti a quest’ora sarei a Ibiza. Non certo in Calabria”.
La scorgo, di primo mattino, sotto il B&B dove alloggia, dacché ha venduto la vecchia casa di famiglia. Come per recidere ogni pericoloso legame irrazionale. Ha gli occhi assonnati, la bocca socchiusa, nel volto un’espressione di vago stupore, come un etnologo che visiti una tribù indigena in qualche meandro dell’Orinoco. Annota mentalmente le scene intorno a sé: una vecchina che passa col carrello sbrindellato della spesa; il camioncino in seconda fila con l’omino che scarica la merce; io che allargo la curva a gomito per non dover fare doppia manovra; il cane malconcio che sonnecchia vicino alle briciole di cibo lasciate da qualcuno in un piatto di plastica.
Camicetta di lino chiara, pantaloni corti color canna da zucchero, capelli sapientemente scarmigliati, sandali leggeri di cuoio, abbronzatura dorata. Immagino il profumo: qualche essenza orientale con un tono delicato di salsedine. Tiene entrambe le mani nelle tasche dei calzoncini, che accentuano la pelle serica delle cosce in evidenza. Calma, lieve come una nuvola nel cielo, muove verso il bar dove sorbirà una granita di latte di mandorla con brioche, sfogliando sul tablet le notizie di Repubblica. Più tardi, scenderà al lido, dove ha prenotato l’ombrellone. Starà nascosta nell’ombra, per qualche ora, fingendo di leggere un romanzo Feltrinelli. Osserverà, invece, tutti gli altri bagnanti con l’attenzione di un entomologo, per cavarne un reportage sui cugini selvaggi di Calabria che le servirà in città per condire con qualche battuta le conversazioni con gli amici civili.
Di tipi così ne vedo tanti, in questi giorni. Sono degli Alain Elkann meno sfrontati, dei sociologi sotto mentite spoglie. Vagano come spaesati, improvvisamente scarcerati dalla rassicurante routine delle città del Nord. Segretamente eccitati per l’avventura fra gli indigeni che li attende. Desiderano essere riconosciuti, interrogati, intervistati. Soffrono se non dai loro retta. Al contatto visivo sfoggiano un largo sorriso che esalta dentature d’alabastro, accentuano la perfezione del loro italiano, ti provocano per sapere come va quaggiù. Se ammetti che siamo nella merda si offendono: avrebbero voluto dirtelo loro, con tono di subdola commiserazione. E invece li frego: parlo subito male della Calabria, dico quello che non va (e che loro sanno benissimo) e solo dopo, en passant, racconto delle cose belle, dei tanti luoghi sconosciuti che abbiamo intorno, delle iniziative che organizziamo, del culo che ci facciamo ogni giorno a vivere in una regione dove si fatica dieci volte in più che in quelle dove vivono loro. Lì noto un gesto di disappunto, perché sono costretti a dire, come al figlio esibito da un amico: “ma che carino!” Improvvisamente vorrebbero avere nel loro carnet di viaggio tutto quel che di buono ho sciorinato. Vorrebbero conservare qualche gadget che dimostri che l’avventura fra i selvaggi l’hanno vissuta davvero. Vorrebbero poter dire che hanno partecipato, che hanno visto, come si trattasse di un parco nazionale in Kenia o di una riserva indiana nel Nord Dakota. Ed è qui che prorompe la richiesta: “mi ci devi portare”, “avvertimi quando fate qualcosa”.
Guai però se, preso dalla compassione, li inviti a partecipare a un evento o ad una camminata. Era quello che volevano. Per poterti rispondere con ostentato sussiego: “Scusami, ma domani non posso, ho un invito a pranzo. Un’altra volta. Mi raccomando, tienimi informato”. Peggio ancora se li inviti a cena. Dopo i convenevoli, a tavola, appena il vinello che hai messo in fresco per loro fa effetto, liberano quello che avevano in gola sin da quando ti hanno incontrato: “Ma tu, come fai a vivere in Calabria?” Vorrebbero cioè che ti esibissi nel pianto rituale delle prefiche, che vuotassi il sacco dei lamenti, che li pregassi di elogiare le “magnifiche sorti e progressive” di leopardiana memoria. Ed è a quel punto che ho sempre in serbo la risposta del cugino delle terre selvagge: “Hai presente i diversamente abili?” Attendo un loro gesto interdetto di assenso e concludo: “Ecco io vivo in Calabria da diversamente felice. Senza indennizzi o pensioni. Senza assistenza. Senza servizi. Selvaggio certo, ma diversamente felice”.