NELLA REGIONE DEI PRODIGI NATURALI

Pomeriggio di ottobre. Devo riallenare il mio fisico. E anche la psiche. Da casa, i monti appaiono immersi in una grigia caligine. Salgo ugualmente. Passo a prendere Saverio. Lasciate le ultime case della città, la strada s’inerpica fra campagne, boschi, case sparse. Qui vivono gli irriducibili, i resistenti, coloro che hanno rinunciato alle sicurezze urbane, per godere di semplicità, quiete, bellezza. Sono case modeste, contornate di orti aulenti, dove le persone, volendo, possono trovare una nuova dimensione di vita, un nuovo senso dello spazio e del tempo. Raggiungiamo la piccola frazione di Sambate, da dove inizia la nostra passeggiata. Qui mi conoscono tutti ormai. Sanno della mia passione per questi luoghi. Mi vedono venire da anni, spesso solo. All’inizio erano guardinghi. Poi, per un po’, devono aver pensato che io fossi matto. Infine hanno capito, perché chi osserva da qui le albe e i tramonti, è conscio di quale privilegio gli è concesso.

Saliamo fra le case semi-abbandonate. Una vecchina, avvolta in quegli abiti lisi che tanto amo perché sanno di sobrietà, raccoglie castagne sotto gli alberi giganti.

Una volta in cresta, non possiamo fare a meno di compiacerci perché nonno cerro è ancora lì, vivo e non atterrato da una motosega. Nel silenzio dell’aria ferma, ci muoviamo, avvolti dalla nebbia, calpestando un tappeto di ricci e lucide castagne. Abbiamo tempo. E anche se dovessimo far tardi, negli zaini ci sono le pile frontali. Decidiamo di compiere un anello, tagliando a sinistra, a mezza costa fra Monte Tombarino e la Conca di San Mazzeo. Attraversiamo un giovane bosco di ontani e cerri ricresciuto spontaneamente da quando la pastorizia è scomparsa: a conferma che i terreni “degradati”, che i forestali credevano sterili, sanno produrre nuovi boschi anche da soli. Pioppi si levano verso il cielo come candele, con le cortecce chiare e le foglie a forma di cuore.

Quando la strada sale fra i pini avverto un lieve soffio di vento da occidente. La nebbia si scompone, ondeggia, si sfrangia in filamenti inquieti fra gli alberi. Il sole lancia raggi dorati. Siamo immersi in una polvere luminosa, sospesi nell’aria. Il cielo si china a baciare la terra. E noi entriamo nel loro tenero amplesso.

Ci fermiamo ad osservare, ansimanti, increduli. Non ho con me la macchina fotografica. Mi arrabatto col telefono, illuso di poter catturare qualche attimo di quella relazione col Tutto. Il mio compagno mi appare improvvisamente avvolto in un raggio di sole, che lo coglie in mezzo alla nebbia, sovrastato dagli alberi. Poi, sul crinale, il sole irraggia nel bosco una perfetta stella di luce. È la chiarità, la “claritas” dei latini, componente fondamentale di ogni bellezza e di ogni sapienza, come ricorda Umberto Eco in una pagina memorabile de “Il nome della rosa” quando Guglielmo ed Adso vedono per la prima volta la biblioteca del monastero.

Arranchiamo fin sulla cima di Monte Faggio da cui la vista si apre verso l’immenso. Il vento ha imposto alle nuvole di appiattirsi sotto di noi, sulle valli, lasciando libere le cime dei monti e il cielo. Sulle quinte dei rilievi è un continuo rincorrersi di frattali di nebbia che provano inutilmente a risalire, ricacciati dal vento. In basso, una grigia trapunta ribollente ci separa dalle valli, dove si concentrano gli umani indaffarati, inquieti, protervi. Prendendo in prestito le parole di Alberto Savinio dico: “siamo giunti nella regione dei prodigi naturali”. Ed è questo il grande privilegio che offrono le mie “montagne di casa”: mi attendono pazienti, imperturbabili, accudenti, senza mai allontanarsi; posso ricoverarmi presso di loro in pochi minuti; sono delle vere taumaturghe senza avere una laurea in medicina; conoscono l’arte dei miracoli senza che alcuno le abbia mai dichiarate sante; ogni giorno mi dicono da lassù: mai ti lasceremo solo.

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