Ci sono luoghi, fra le montagne, in cui non puoi andare da camminatore. Sono luoghi dove si va in pellegrinaggio. Come fossero santuari o piccole chiese sperdute, dove si narra che un sant’uomo abbia vissuto. Sono luoghi dove non puoi non genufletterti e pregare silenziosamente. Uno di questi luoghi dello spirito è il M. Sparviere, nel Pollino d’oriente. Una montagna di luce. Quella del vicino mare d’Omero da cui sorge il sole, e dove l’aurora ha le dita rosate. Quella delle grandi timpe argentee della valle del Raganello. Quella, infine, delle fronde degli aceri dipinte dall’autunno. Già venerdì ho sentore del mio desiderio di preghiera. E il sabato sera non mi appaga il vangelo dei talenti, né la lettera in cui Paolo di Tarso assicura i tessalonicesi che siamo figli della luce e del giorno. Per cui luce e talenti vado a cercarli lassù, nel lato della montagna che si raggiunge dal piccolo paese arbereshe di Plataci. Saliamo lungo il ripido costone che monta su Timpone di Bardisce. Con alle spalle il tratto più meridionale dell’Arco di Sibari, che intinge nell’azzurra curva dello Ionio il delta del Crati. Poi attraversiamo la dolina e raggiungiamo la vetta dello Sparviere. Comincia la preghiera, il salmodiare lento del ringraziamento. Perché è questo che vengo a fare quassù: vengo per essere grato. Verso ciò che riconosco al di là d’ogni realtà ma anche d’ogni immaginazione. Ciò che l’uomo non può vedere, ma che può solo intuire. Perché qui, in questi giorni dell’anno, abitano i cantori della gratitudine: i grandi aceri dai colori smaglianti, i cerri, gli abeti vecchi come i santi che dimorarono qui in antico. Attraversiamo Lagoforano e poi aggiriamo Timpone della Neviera, sino ad affacciarci sulla Valle Nera, da cui tante altre volte sono venuto. Proprio nel punto in cui un abete solitario guarda la valle del Sarmento: testimonianza e presagio del sacro.
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