Sediamo al tavolo della cucina, a Camuti di Ciminà. Di ritorno dal cammino domenicale. Quaggiù, offrire riparo agli erranti è consuetudine antica. Lo comprese bene Pavese quando, dal confino a Brancaleone, nel 1935, scrisse alla sorella: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui, una volta, la civiltà era greca. L’ospitalità è intatta.”
Avevo nostalgia del luogo, Monte Pinticudi, ma anche di colui che ne è custode. Abbiamo la stessa età Rocco ed io. Ci conoscemmo quarant’anni or sono, quando cercavo un percorso per salire sulla montagna più singolare dell’Aspromonte d’Oriente. Un picco roccioso di 840 metri di altitudine. Con altri quattro picchi più bassi, che fanno somigliare il suo profilo alla schiena di un drago. Con Rocco ed il suo primogenito parliamo di capre, lupi, sentieri, fiumare straripanti, ma anche della distanza del potere costituito dai bisogni della gente che vive in luoghi disagiati come questo. Mi racconta, ad esempio, come lui ed altri agricoltori della zona abbiano dovuto costruire a loro spese un chilometro di strada per raggiungere il villaggio di Cirella. Per le fattorie sparse ed isolate ai piedi di queste montagne impervie, i collegamenti sono fondamentali. Le persone, qui, sono abituate a contare solo su sé stesse.
Al mattino presto penetriamo nella lecceta. La via è perduta. Dò fondo ai ricordi per orientarmi. Sotto di noi costoni, pietraie, canaloni che si tuffano a picco verso le gole del Torrente Zighìa. Il vento sferza le cime degli alberi. Lo stormire delle foglie si confonde col fragore dell’acqua nell’alveo. In alto, ripide pareti puntano verso le pinne del drago. E tutt’intorno il bosco, fitto, scosceso, buio. Il cammino è un districarsi fra pietre, baratri, rami, arbusti spinosi. Spiriti vaganti si divertono ad ostacolarci. È un mondo appartato. Solo a un folle può venire in mente di sperdersi in queste solitudini, in questi intrichi vegetali, in queste cattedrali di roccia. Non montagne addomesticate, non giostrine per cittadini annoiati che cercano un po’ di adrenalina a buon mercato. Luoghi tornati selvaggi, impenetrabili, invece, dove ritrovare la nostra umanità. Dove imparare la fatica, la perseveranza, il rispetto, la preghiera. Stento a imboccare il punto in cui occorre lasciare il sentiero per inerpicarsi fra canaloni franosi. Salgo, scendo, risalgo. Stanco, sudato. Poi seguo una labile traccia sotto un’alta parete. D’improvviso, la luce abbagliante del sole e l’azzurro del cielo. Procediamo ora, su una paretina obliqua resa infida dall’umidità e da una miriade di pietre precipitate dai picchi che incombono su di noi come giganti pietrificati. Sino a sbucare sul piccolo lacco ove è la Grotta di Nino Martino. Un nido d’aquila da cui il leggendario brigante progettava le sue vendette. Aggiriamo la grotta e saliamo in cima, sferzati da un vento freddo e pazzo come noi. E lassù rendiamo grazie per quei momenti di pura estasi. Seicento metri più in basso, sulle radici della montagna c’è Rocco che ci vede e ci attende.
Ci accomiatiamo, ora. Mi impegno a tornare più spesso a trovarlo. Rifletto sulle parole di Pavese. Mi sento come Ulisse quando approda nella terra dei Feaci. Nell’Odissea, Nausicaa, dinanzi all’eroe spiaggiato, solo e derelitto, dice alle ancelle: “questi è un misero naufrago […] e dobbiamo curarcene: vengon tutti da Zeus gli ospiti e i poveri; e un dono, anche piccolo, è caro. Via, date all’ospite, ancelle, da mangiare e da bere, e nel fiume lavatelo, dove è riparo dal vento”. Oggi, Monte Pinticudi, Rocco, la sua famiglia sono stati le nostre ancelle. E Nausicaa mi ha offerto riparo dal vento.