Primo sabato d’aprile. Un vento freddo spazza la Valle del Trionto, di fronte all’abitato di Longobucco. Fremono le eriche arboree. Ondeggiano le tenere euforbie. Sopra di noi Pietra Gnizzito si erge, come la testa di un gigante sepolto nella montagna. Ai suoi piedi lo stazzo di Salvatore. I capretti osservano con occhi colmi di dolcezza. Il fumo che esala dal comignolo segue il vento, sbanda, s’impenna, fugge, ritorna, come il Vento Matteo de “I segreti del Bosco Vecchio” di Dino Buzzati: un vento capriccioso e burlone.
Ci avviciniamo alla casa. Vento e fumo s’intrufolano fra gli abiti, invadono i capelli, arrossano gli occhi. Solo quando siamo dentro, nell’ombra trapunta dai raggi d’oro del primo mattino, il vento ci dà tregua. L’ambiente è rustico, essenziale. Ci sono gli utensili del pastore e, appesi in alto, gli intestini col caglio. La luce si riflette sul bianco del latte nella grande pentola sul fuoco di legna. Le mani di Salvatore premono la ricotta nelle fuscelle. Ad ognuno di noi spetta un po’ di quel cibo aurorale, offerto di mano in mano, caldo, fumante, profumato. Giusto il tempo d’immergerci in un altro mondo, un’altra realtà.
Salutiamo il pastore e imbocchiamo il vecchio sentiero scavato nella roccia, che sale serpeggiando la vasta e ripida pendice di Monte Paleparto, nel cuore della Sila Greca. Pietra Gnizzito ora è sotto di noi. Il sole si alza in cielo da oriente e man mano illumina un paesaggio di valli profonde, di selve senza fine, di paesi e case spersi come piccoli semi chiari nella verde immensità.
Entriamo in un mondo perduto, dove gli uomini rifiutano di divenire semplici algoritmi biologici. Salvatore e gli altri che abitano queste terre sono ancora vivi, reali, hanno fede, hanno speranza. E c’è il silenzio, che il vento Matteo sparge fra i pini e le querce. Quei pini e quelle querce i cui progenitori, come nel libro di Buzzati, come per il Bosco Vecchio del Colonnello Procolo, furono devastati dalla tecnologia degli uomini del Novecento, ma che hanno pur sempre dei buoni geni pronti a proteggerli. I geni degli alberi, che aiuteranno Benvenuto, il piccolo protagonista del libro di Buzzati, a divenire adulto e contrasteranno il disegno distruttivo del colonnello.
Più in alto saliamo e più abbiamo sentore della solitudine: ascesa qui significa anche ascesi! Mi tengo un po’ distante dagli altri. Provo a farmi eremita anch’io, per come desidero da anni ormai. Resto immerso nei miei pensieri, nelle mie ansie. Fra il vento, il bosco e il cielo, ritrovo un po’ di serena accettazione. Il cammino ora è più quieto: abbiamo superato l’orlo dell’altopiano. Ritroviamo i resti di un rifugio arcaico di pastori sulla cima del Paleparto, dove le rocce sono arrossate come se avessero assorbito il pallido sangue della Terra. Gli alberi, che ricrescono ovunque, non hanno ancora cancellato il grandioso panorama che si gode da quassù.
Cominciamo la discesa per un’altra via. C’è La Pigolara sul nostro percorso, un breve crinale di rocce di granito puntute di pini solitari. Sostiamo a lungo, sospesi sull’eternità. Poi giù, di nuovo verso le bianche spire del Trionto. Con di fronte Longobucco che da lontano appare come un paese delle fiabe. Sino a tornare da Salvatore, che mentre noi scorrazzavamo per i monti, ha vissuto la sua giornata fatta di duro lavoro, di gioia semplice. Quella gioia che è negata a noi cittadini “evoluti”, sempre pronti a desiderare di più, a pretendere di più, a consumare di più, ma a rimanere sempre più insoddisfatti.
Laggiù, nella valle, il Trionto mugghia come una creatura viva. Passerà appena un mese da quel primo sabato d’aprile e il ponte della superstrada che scavalca il fiume crollerà rovinosamente, in diretta televisiva, travolto dalla piena. Quell’immagine non è il simbolo della fine di una civiltà, dell’isolamento di Longobucco, come ci vogliono far credere. È invece emblema della sconfitta della modernità, la cui cifra è la certezza di poter plasmare la natura come più piace all’uomo. Salvatore, che col vecchio padre, ora, scende a valle per la notte, la lezione l’ha appresa non dai libri, non dalla tv, ma da quell’uomo che ora ci osserva silenzioso. Entrambi forse neanche immaginano che vivere in quel luogo severo e povero, quel loro isolarsi fra i belati delle capre, lo stormire del vento e lo scroscio del fiume è il solo modo per non divenire schiavi della modernità. Dopo tutto questo, di fronte a tutto questo, sento che fra Benvenuto e Salvatore non c’è differenza. E che anch’io voglio iscrivermi all’umanità di Longobucco, alla schiera dei geni del Bosco Vecchio.
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Foto Saverio Guzzi