MESSNER E DON CHISCIOTTE: PERCHE’ IL VERO EROE È IL SECONDO

Cammino in montagna. Ho fatto qualcosa di alpinistico. Nel mio piccolo sono anche un esploratore. Tuttavia, i miei eroi non sono i grandi contemporanei di queste discipline: un Reinhold Messner ad esempio. No, non sono questi gli uomini – per i quali pure nutro ammirazione, stima e rispetto – che mi sognerei di imitare, neanche se ne avessi le possibilità. Messner, infatti, mi pare un’icona del “superomismo”. Non il superomismo inteso alla maniera di Nietzsche o di Dannunzio, ma in un significato più semplice: l’idea secondo cui la volontà, lo spirito, la tenacia degli uomini possono vincere ciò che è sempre stato oggetto di conquista per l’uomo che si definì “sapiens”: la natura-materia.

Nel pensiero greco antico la natura-materia era sfondo increato delle azioni degli uomini e limite per esse. Dall’avvento del pensiero giudaico-cristiano e grazie al mandato biblico all’uomo di soggiogare la Terra, questi ha creduto di poter impunemente violare la natura-materia. Molti moderni hanno fiducia nel genio umano e pensano che esso ci consentirà di superare i problemi prodotti dall’uomo stesso: inquinamento, distruzione degli habitat, sovrappopolamento, surriscaldamento globale, cambiamenti climatici, disuguaglianze sociali, avidità, irresponsabilità, corruzione etc. Ho rispetto di questa tesi ma non la condivido. Ed è per questa ragione che non prendo ad esempio superuomini che con le loro vittorie sui simboli della grandiosità della natura-materia (le montagne, i ghiacci eterni, le giungle, le savane, le tundre) rendono un servizio alla visione antropocentrica del mondo.

Il mio anti-eroe è, viceversa, don Chisciotte della Mancia, il personaggio scaturito dalla fantasia di Miguel de Cervantes. Che su una montagna, a piedi, non è mai salito. Che non ha compiuto grandi imprese. Che ha combattuto solo per un “ideale”: parola ormai scomparsa dal lessico contemporaneo. Anzi, parola – insieme all’altra, “idealista” – gettata come segno di discredito sulla reputazione di tutti coloro che non sanno rassegnarsi all’andazzo di una realtà e di una umanità guidate dal pragmatismo e dall’opportunismo. Ma, a ben vedere, anche Don Chisciotte ha fatto “scalate” nella sua vita romanzesca. Sì, perché salire su una montagna non è solo il gesto atletico di chi compie un dislivello arrampicandosi verso la cima, ma è anche, ad esempio, combattere contro i mulini a vento. Laddove i mulini a vento sono i simboli di una realtà tenacemente ancorata alla sapienza produttivistica dell’uomo, alla sua pervicace ricerca di una nuova creazione fatta ad immagine e somiglianza non di Dio ma dell’uomo stesso.

Anche se Don Chisciotte non fosse esattamente l’idealista della critica romantica, il “folle” nel senso erasmiano del termine, il passionale che carica su di sé i mali del mondo e vorrebbe lenirli, resta il fatto che egli, con le sue gesta improbabili (contrapposte a quelle perfette dell’eroe citato all’inizio) ci dice che si può resistere all’idea di una realtà prosaica nel suo segno distintivo ormai irrimediabilmente antropocentrico. Proprio Cervantes verso la fine del romanzo, quando il Cavaliere della Bianca Luna “normalizza” Don Chisciotte battendolo in duello e pretendendo che egli cessi le sue erranze, mette in bocca ad un personaggio che si rivolge al vincitore: “Oh signore […] Dio vi perdoni del torto che avete fatto a tutto il mondo nel voler far diventare savio il pazzo più simpatico che ci sia in esso! Non vedete, signore, che il vantaggio che può produrre il rinsavimento di don Chisciotte non potrà mai arrivare al piacere che dà con tutte le sue follie?”

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