Nei giorni scorsi è montata un’aspra polemica sulle croci in cima alle montagne. Un valente giornalista e scrittore, Marco Albino Ferrari, direttore editoriale del Club Alpino Italiano, in un pubblico dibattito all’Università Cattolica di Milano, in pieno accordo con gli altri relatori, fra cui un alto prelato, un giurista ed una storica dell’arte, aveva detto basta all’installazione di nuove croci in montagna. Nella stessa occasione, però, Ferrari e gli altri avevano convenuto che sarebbe un errore togliere le croci storiche perché sono ormai parte integrante del paesaggio delle nostre montagne ed anzi, si è sottolineato come il CAI si prenda cura di questi manufatti. Nonostante ciò, la semplificazione giornalistica della notizia è stata: “il CAI vuole togliere le croci dalle montagne”. E, con altrettanta superficialità, gli oltranzisti cattolici ed i politici ultraconservatori se la sono presa con Ferrari e con il CAI. A quel punto il presidente nazionale dell’associazione, Antonio Montani, chiamato in causa dai ministri Salvini e Santanché, ha preso le distanze da Ferrari e dalla notizia riportata da “Lo Scarpone”, il giornale on line dell’associazione, chiedendo addirittura scusa ai ministri. Ne sono seguite le immediate dimissioni di Ferrari e del curatore del sito Pietro Lacasella.
Fin qui la polemica recenti. Il problema però è risalente nel tempo. Le prime croci moderne sulle montagne vennero installate con lo svilupparsi delle attività alpinistiche. Esse sono il simbolo della “conquista” della vetta e dell’umanizzazione di luoghi che prima erano considerati orridi e irraggiungibili. In parole semplici: le croci – prima piccole e di legno, poi sempre più grandi ed in ferro o cemento – sono il segno della “vittoria” dell’uomo sulla natura, idea che permea di sé tutta la modernità. In questo c’entra molto poco la religione. Anche perché le croci sulle montagne sono un fenomeno tutto occidentale, che pertiene a un mondo, cioè, che era ed è già cristiano e non ha alcun bisogno di imprimere sul territorio ulteriori conferme del proprio credo religioso.
E che si tratti di un vezzo moderno e di un fenomeno laico più che religioso lo dimostra anche il fatto che i salitori ante litteram delle montagne non sentivano alcun bisogno di infliggere croci di vetta. Ne è un classico esempio quella che viene considerata, contemporaneamente, la prima ascensione in montagna e la prima percezione di un paesaggio in Occidente: l’ascensione sul Monte Ventoso compiuta da Francesco Petrarca insieme al fratello Gherardo il 26 aprile del 1336 e descritta dal grande poeta in una lettera all’amico monaco agostiniano Dionigi di San Sepolcro. In quell’occasione ed in molte altre successive, nulla, men che meno una croce, venne lasciato sulla cima. Il fenomeno si è sempre più diffuso, invece, insieme alla moderna frequentazione delle cime ed alla crescita tecnologica. È a partire da questi fenomeni che l’uomo ha pensato bene di infliggere segni duraturi della sua forza sulle montagne. Ed in effetti, la croce, nell’iconografia cristiana – a partire da quella che fu issata sulla cima del Golgota – rappresenta la passione di Gesù ma anche la sua resurrezione ed è quindi simbolo di “vittoria” sulla morte (quindi sulla natura). Mentre in epoca pre-cristiana essa fu, al contrario, simbolo del sole e della superiore forza della natura.
E torniamo alla polemica attuale. La questione posta da Marco Albino Ferrari e dagli altri non è quella di eliminare – con il metodo biasimevole della “cancel culture” che va tanto di moda – le croci storiche installate sulle montagne in tempi in cui la natura veniva considerata inferiore all’uomo, da conquistare e soggiogare. È piuttosto quello di impedire, in un tempo in cui, invece, l’uomo deve aver rispetto della natura (oltre che per la libertà di religione), il proliferare di oggetti che significano esattamente il contrario. Questo, a me pare, è il vero problema. Le nostre montagne si stanno riempendo di sovrapposizioni posticce e artificiose, dalle pale eoliche alle panchine giganti, dai voli dell’angelo ai ponti tibetani. Per non parlare di impianti di risalita, rifugi avveniristici, cumuli di rifiuti. Le croci che taluni vorrebbero imporre alle montagne sono sempre più grandi, pacchiane ed invadenti, come la grande croce di cemento armato, alta una trentina di metri, che un ricco emigrato fece costruire sul M. Reventino in Calabria in territorio del Comune di Conflenti a futura memoria del suo successo mondano e del suo attaccamento al paese natale. Sicché consentire a chi viene colto da un delirio devozionale di infilzare le montagne con nuove croci sempre più bizzarre ed imponenti mi pare pura follia.
Del resto, ci aveva pensato qualcuno molto più in su di Marco Albino Ferrari a spiegare, qualche tempo fa, proprio quando Salvini esibiva croci ciondolanti sul petto villoso baciandole in pubblici comizi, che il simbolo della croce non può essere banalizzato ed abusato per fini diversi da quelli religiosi e spirituali. Si trattava di Papa Francesco! Ed il suo limpido insegnamento dovrebbe mettere fine ad ogni polemica: in montagna, il silenzio è più autentico, più spirituale, più religioso, più tollerante di qualunque croce, di qualunque polemica.