LA NEVE, GLI INGORGHI IN MONTAGNA E LA FAME ATAVICA

Pare che domenica scorsa, in una nota località turistica della Calabria si sia creato un ingorgo spaventoso di automobili, fra la zona delle piste da sci ed il paese. L’arrivo improvviso della neve ha spinto, come sempre, migliaia di persone ad “andare in montagna” … tutte contemporaneamente e nello stesso posto! Così, per ore, le persone hanno respirato i gas di scarico che, a loro volta, hanno inquinato l’aria più pura d’Europa (secondo una notizia che riecheggia, di tanto in tanto, sui social), sono rimaste sedute negli abitacoli delle autovetture per ore, hanno giocherellato con i pupazzi e le palle di neve (chi ci è riuscito), hanno vanamente tentato di sciare visto che gli impianti erano chiusi, hanno invaso i ristoranti per almeno tre ore, si sono nuovamente incolonnati per far ritorno nelle città, sperando che l’inalazione di essenze di carburanti favorisse lo svuotamento gastrico. Alla fine della giornata, quando qualche familiare più pigro, fra le menate televisive su calcio e gossip, ha chiesto loro dove fossero stati, hanno risposto, gonfiando il petto: “In montagna, sulla neve!”

Questa versione “casereccia” dell’andare in montagna non è solo banale – in perfetta linea con la diseducazione impressa dai tg di questi giorni – ma è anche deleteria e fuorviante. Beninteso, non ho alcuna intenzione di fare del moralismo d’accatto: ognuno è “libero” di consumare il proprio tempo libero come più gli aggrada. Né voglio che i calabresi si trasformino tutti in camminatori ed esploratori impenitenti (anche per i luoghi sarebbe un disastro!). Né, infine, voglio in alcun modo sminuire la bellezza e l’utilità delle località turistiche in montagna. È che occorrerebbe fare, forse, un po’ di chiarezza lessicale, così, giusto per evitare anche gli ingorghi linguistici e farsi capire da tutti.

“Andare in montagna” significa conoscere realmente luoghi, paesaggi, comunità, leggere un po’ di storia (e di storie), provare a comprendere le realtà, così belle e fragili, delle “terre alte”, cercare di aiutarle a fuggire dalla svendita dei territori, dalla mutazione antropologica, dall’apocalissi culturale. Per l’altro fenomeno – quello che si è visto domenica qui in Calabria (come da altre parti) – occorrerebbe usare, invece, la diversa locuzione: “andare a mangiare in montagna”. È un’altra cosa! Significa semplicemente spostarsi dal confort della città, in pianura, verso ristoranti in quota, collegati a quel confort da appositi cordoni ombelicali, rimettersi in macchina e tornare indietro senza aver visto e capito nulla, salvo verificare quanto può dare sollievo una pasticca di Malox e quanto è liberatorio un rutto all’aria fresca. Tanto per lenire la fame atavica dei calabresi, che resta, evidentemente, nel loro inconscio collettivo, come uno stigma inestinguibile.

Eppure in Calabria, a parte le pur belle località sciistiche, vi sono spazi immensi dove apprezzare i paesaggi innevati: dal Pollino, alla Sila, alle Serre, all’Aspromonte, sino a montagne meno note ma ugualmente interessanti. Perché i calabresi, allora, si muovono all’unisono, come un banco di sardine, e appena giunge loro l’ordine dei media partono per la solita mangiata in montagna? Perché non hanno alcuna curiosità verso quella civiltà della montagna che ha cullato i loro avi per secoli? Perché non mostrano alcun interesse per tanta storia e tanta letteratura che raccontano la vita di quelle montagne? Perché non aprono gli occhi su quante opportunità offrono quei luoghi così singolari? Non posso qui, per ragioni di spazio, analizzare l’amnesia dei luoghi ed il coma topografico che attanagliano gran parte dei calabresi. Posso però offrire uno spunto di riflessione più generale, nella cui cornice il fenomeno che ho evocato si colloca. Tutto questo può accadere perché la nostra civiltà dei consumi ci fa sentire vivi solo se siamo uguali agli altri, solo se ci omologhiamo. Tutti, soprattutto i giovani (ma anche gli adulti, le famiglie), sono in gran parte governati dall’idea che per essere riconosciuti si debba fare le stesse cose. È esattamente il contrario di quanto accadeva un tempo, quando per essere apprezzati occorreva distinguersi. Stiamo entrando in un’epoca distopica (la distopia è un’utopia negativa) in cui, come diceva Aldous Huxley, non ci sarà bisogno di governi autoritari perché saremo noi stessi a scegliere di essere schiavi dei comportamenti omologanti. Nella vita di tutti i giorni come in montagna e sulla neve.

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