Dunque, cari Calabresi, dovete sapere che la vostra-nostra regione è fatta per gran parte di montagne. Solo il 9% del suo territorio è in piano. Il grande geografo Lucio Gambi, in un suo libro sulla Calabria del 1978, mise in copertina un paesaggio di boschi di conifere della Sila, non quello del mare a Tropea o Capo Vaticano; e spiegò come i vostri/nostri avi siano vissuti per millenni nelle montagne, non nelle pianure, che per secoli furono infestate dalla malaria, dalle paludi e dagli attacchi dei pirati provenienti dal mare. In Calabria, a parte la parentesi magno-greca, non sono esistite città costiere, ma solo piccoli paesi abbarbicati sulle alture e perfino sulle montagne. Dalle montagne venivano quasi tutte le risorse: legname, minerali, la resina dei pini, pascoli, prodotti agricoli, animali domestici, acqua dolce. Nelle montagne passavano le principali vie di comunicazione. Sulle montagne, non sulle coste, insomma, c’erano il lavoro e la vita. Ma c’era anche la morte: monti e valli sono disseminati di croci e lapidi di gente morta per le ragioni più svariate: sfinimento, fatica, fame, fulmini, gelo, frane, scariche di pietre, incendi, cadendo nei burroni o nei fiumi.
Ora, cari Calabresi, tutti abbiamo dimenticato la nostra storia e pensiamo, invece, che le vere occupazioni produttive, la vera vita siano nei centri in pianura, nelle “città lineari” che si dipanano lungo le coste, negli alveari anonimi delle periferie urbane. E crediamo anche che i pochi che restano nei paesi di montagna, dove si è più vicini alla natura, siano dei matti, dei trogloditi, degli sfigati, che della vita non hanno capito nulla. Da dove deriva questa distorsione mentale? Giuseppe Ungaretti rispondendo a Pier Paolo Pasolini in un’intervista televisiva disse: “la civiltà è un atto contro natura”. Voleva dire che la civiltà (dal latino “civis” che significa cittadino) nasce con l’illusione dell’uomo di potersi così proteggere dalla natura, dalla sua forza immane, dei suoi rischi, dalle sue insicurezze. Nelle città ci sentiamo accuditi e protetti.
Ecco perché quando andiamo in montagna non più per viverci stabilmente o per lavorarci ma per divertirci lo facciamo con l’illusione di trascinarci dietro, insieme a molto altro, anche la presunta sicurezza della città. Il rischio che ci prendiamo quando andiamo in montagna per diletto, paradossalmente, ha cessato di essere pericolo imponderabile ed è divenuto invece elemento essenziale della nostra soddisfazione di consumatori di attività out-door: sci, escursionismo, alpinismo, mountain bike, torrentismo, caccia, pesca, moto da cross, quad, rafting compreso naturalmente. Il rischio è divenuto, ormai, un elemento imprescindibile per procurarci quell’ebrezza che ci emancipa per qualche ora dalla protetta ma troppo noiosa vita cittadina. E dove cerchiamo l’ebrezza? In montagna naturalmente, dove non esistono le sicurezze della città, dove tutto è forte, “selvaggio”, adrenalinico.
Ma nel fare queste attività, noi Calabresi, che abbiamo perso la nozione di “montagna” e di “pericolo” da più di settant’anni almeno, siamo come degli adolescenti, come quelli che si lanciano a cento all’ora sulle auto dopo aver passato una notte brava in discoteca, o si imbottiscono di alcool, fumo e droghe, o si battono in risse nelle strade, o restano vittime di aggressioni nelle civilissime metropoli del Nord. È con questo spirito che ci approcciamo – non tutti, ovviamente – a scalare pareti verticali, a ramponare sul ghiaccio, ad andarcene in giro per i boschi, a precipitarci a tutta velocità su bici, moto e quad, a calarci nei canyon, ad avventurarci in gommone fra le rapide dei fiumi etc. Il tutto, ovviamente, senza mai mettere in conto quei pericoli che abbiamo dimenticato. In sostanza vorremmo trovare la montagna disponibile e concederci un po’ di adrenalina a buon mercato, ma pur sempre remissiva e sicura, come ce la descrive la televisione o come ci appare sui social. Ci illudiamo, cioè, che in qualunque situazione disagevole debba pur esserci qualcuno o qualcosa che ci toglie dai guai. Una volta, un escursionista neofita, sorpreso da un temporale estivo sul Pollino, mi disse stizzito: “ma possibile che il Parco non abbia pensato di costruire una pensilina per ripararsi?”
Ed è così che quando la montagna, che crediamo un’innocua giostrina, ci crea un imprevisto, l’illusione si trasforma in delusione e ce la prendiamo con le autorità che dovevano vietare qualcosa, con le guide (ove ci sono) che non ci hanno saputo portare, con i luoghi che non sono stati docili come credevamo. Dico questo non solo per voi che cercate semplice divertimento, ma anche per quegli amministratori che dopo una disgrazia chiudono l’accesso a fiumi e montagne (ad oggi, dopo cinque anni dalla disgrazia, il Raganello non si può frequentare), ed ai pubblici ministeri che sequestrano all’infinito i luoghi delle tragedie. Eppure altrove, questo non accade: per la disgrazia della Marmolada, ad esempio, il ghiacciaio crollato è rimasto chiuso solo qualche giorno. Beninteso, non tutti i fatti sono uguali. Dunque ben vengano le inchieste per far luce su eventuali responsabilità. Ma smettiamola di fare due pesi e due misure se un nostro giovane muore cadendo dalla bicicletta o dalla motocicletta (nel qual caso dite: “si è trattato di una fatalità”) oppure se muore cadendo in un fiume o in un burrone (nel qual caso è colpa del fiume e del brurrone o di chi non ha impedito al giovane di finirvi dentro).
Ma, visto che scimmiottiamo le Alpi in tutto, perché non impariamo da quelle popolazioni e dai loro fruitori a non cercare sempre e comunque capri espiatori? Magari capiremmo che stare in città non è meno sicuro che andare in montagna e che la civiltà non è meno pericolosa della natura. Con buona pace per tutti gli autolesionisti, tutti gli illusionisti, tutti i giustizialisti che affollano i nuovi mezzi di comunicazione di massa.