La Calabria, gli intellettuali, le riserve indiane

Molti intellettuali che vivono nelle grandi città del Centro-Nord appartengono ormai ad una “nuova specie” creata in laboratorio: umanoidi, programmati con l’intelligenza artificiale e, soprattutto, teleguidati. Avendo perso il contatto con la parte ancestrale della realtà, la natura (o, se volete, la materia), credono solo nell’artificio della civiltà. E “la civiltà – come disse Ungaretti a Pasolini – è l’unico vero atto contro natura”. Un artificio, dunque, dove oggi tutto è già confezionato – aggiungo io – pronto per l’uso: idee, comportamenti, pregiudizi, conformismi di destra e di sinistra, perfino opinioni, che giornalisti ed “esperti” col doppio stipendio (quello professionale e quello di lobbisti aziende o categorie economiche) ci elargiscono quotidianamente. Per la gioia di tutti coloro che sono troppo pigri per farsi una propria idea del mondo.  Questo processo di “civilizzazione” – che significa poi artificializzare la materia, snaturare la realtà – accade soprattutto a quegli intellettuali che da ragazzi vivevano al Sud e poi si sono trasferiti stabilmente a Roma o Milano. Avendo aderito allo spirito cittadino, per non sentirsi corpi estranei in quelle civiltà, ne hanno accettato acriticamente le convenzioni sociali.

Uno di questi – mio conoscente, giornalista importante – che viveva in pieno centro a Roma, a poche centinaia di metri da Montecitorio (il Parlamento è, fatte le debite eccezioni, la più grande fucina di psicotici ego-disturbati ed aspiranti “deficienze artificiali”) mi offrì involontariamente la prova di quanto avevo pensato. Sapeva della mia lunga attività di ambientalista, esploratore, appassionato di storia e letteratura sulla Calabria, conosceva i ruoli da me svolti nelle associazioni e le battaglie per la rigenerazione di quelli che io chiamo “luoghi perduti”. Tuttavia apparteneva a coloro che, avendo scelto una grande città, considerano il Sud, i paesi, le campagne, le montagne come delle riserve indiane. E pensano a chi ne parla vivendoci dentro come a un tipo antiquato e un po’ tocco, impermeabile al razionalismo neo-illuminista ed al riduzionismo positivista dell’intellettuale urbano. Per il quale la ragione è l’unica facoltà utile del cervello umano e la realtà si riduce solo a ciò che può essere calcolato, misurato, sperimentato.

Un giorno, mentre realizzavamo un evento pubblico nel borgo semi-abbandonato di Panetti di Platania, lo incontro, inizialmente senza riconoscerlo. È tornato per qualche giorno nella riserva. Sta facendo un “avventuroso” giro in macchina nel neo-esotico calabrese. Scende dall’auto, si avvicina, e con lo sguardo indagatore dell’etnologo, prova a farmi qualche domanda, avendomi individuato, secondo i suoi schemi mentali, come lo sciamano del gruppo. Finalmente ci riconosciamo. Me lo trascino dietro. Gli mostro tutto: natura e cultura; autentico e artefatto. Spiego perché il villaggio è stato abbandonato. Lo faccio parlare con gli ultimi abitanti per sincerarsi che siano veri e non li abbia messi lì una pro-loco per divertire i turisti. Fra l’altro dico: “vedi, Panetti è esattamente un luogo perduto, come i più famosi paesi fantasma dell’Aspromonte”. Ha un’illuminazione. La confusione e incredulità che gli si erano stampate sul viso sino a quel momento si trasformano in un sorriso sornione. Puntandomi contro un dito inquisitore, domanda: “Hai visto il film di Mimmo Calopresti, “Aspromonte – La terra degli ultimi”? Rispondo di no: non riesco a trovare il tempo per andare a cinema; le fiction mi fanno dormire; la realtà e le fantasticherie che i miei viaggi nella “materia” evocano dentro di me mi bastano. L’illuminazione si trasforma in commiserazione. Come guardasse l’ospite di un manicomio. Sentenzia drastico, con malcelato disgusto: “non puoi capire l’Aspromonte se non vedi il film di Calopresti.”

Ho così la prova che quel che pensavo degli intellettuali meridionali trapiantati a Roma e Milano è vero. Troppo arduo per loro intuire che la realtà sia “più vera” della fiction, che la ragione non sia l’unico strumento per comprendere la vita, che il Sud sia qualcosa di diverso dall’immaginario del Nord, che nelle riserve indiane vi sia vita anche culturale, che chi è rimasto nelle riserve ha qualche chance di salvezza fuori da cinema, dai talk show, dai quotidiani, dalle serie di Netflix. Occorre sempre attendere un “vero” interprete del Nord, meglio se meridionale trapiantato, come Calopresti, per spiegare cos’è il Sud, per non lasciarci infinocchiare da una realtà troppo reale, noi poveri neo-terroni che abbiamo deciso di restare e di impegnarci in una battaglia di rigenerazione per loro, oriundi al Nord, che è inevitabilmente persa in partenza.

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