Mi sono domandato, nei giorni che hanno preceduto la Pasqua, perché mi senta così vicino a chi ancora pratica i riti popolari della Settimana Santa in Calabria, anche quelli più cruenti. E perché essi mi interessino ben più di qualunque ricostruzione intellettualistica, teologica o scientifica, che di tali riti (compresi quelli della liturgia ufficiale) viene offerta.
Poi, all’improvviso, qualcosa mi ha aiutato a capire. Lunedì sera ha assistito ad un convegno sui flagellanti del sud Italia. Tutte utili e puntuali le informazioni che ci sono state trasmesse degli storici e degli antropologi. Ho avvertito, però, l’urgenza di un approccio meno distaccato verso i protagonisti dei riti, soprattutto coloro che si flagellano. E mi sarebbe piaciuto che si indagasse – con una partecipazione che, mi rendo conto, è ben poco scientifica – sulle ragioni di quell’aderire così forte al sacro (termine che significa “separato” dal profano) che si manifesta durante la rievocazione della passione di Cristo. Mi rendo conto che comprendere cosa c’è nell’animo dei singoli devoti, nelle loro soggettività, non può essere oggetto di studio. Lo si può trovare solo nelle parole semplici di chi è protagonista dei riti, ove mai esse possono essere pronunciate. Ma quelle parole esprimono emozioni non fatti, opinioni non fenomeni misurabili. E, in quanto tali, per gli scienziati, non hanno valore, perché esse non appartengono al misurato, algido mondo della ragione. Piuttosto, provengono dal fondo insondabile ed incandescente dell’irrazionale. Che la sapienza – con l’eccezione forse della filosofia e della psicoanalisi –, con il suo vizio riduzionistico, non vorrà mai considerare parte del reale.
Poi, qualche giorno dopo del convegno, un’amica dall’animo sensibile ed umile, nel mandarmi le immagini dei “vattienti” di Verbicaro, che era andata a vedere la notte del Giovedì Santo, mi ha scritto un pensiero che mi ha illuminato: “penso che alcune tradizioni culturali ci dicono molto delle persone e di un popolo che continuano a praticarle. Loro vogliono mantenere un cordone ombelicale saldo con le proprie origini. Penso che chi continua a fare ciò fa parte dei pochi, veri uomini rimasti sulla Terra. Sì, perché per me si tratta di coraggio. Coraggio di ricordare l’ieri per far vivere l’oggi”.
Il messaggio mi ha commosso, indicandomi la risposta alla domanda che andavo facendomi da giorni. Queste tradizioni rievocate servono a rassicurare chi le agisce – e la comunità entro cui esse si compiono – sul fatto che i racconti fondativi di quella comunità (i suoi miti) non sono andati perduti, che nonostante l’omologazione culturale, la comunità mantiene la sua specificità, è viva. E sin qui, devo dar atto che anche alcuni storici ed antropologi lo sanno e lo affermano. Ma quel che, invece, mi si è rivelato in tutta la sua disarmante semplicità è il non detto che c’è dietro quel messaggio. Nella forma attuale, ed al netto di certe contaminazioni della modernità, quei riti sono espressioni sincere dell’adesione alla passione di Cristo. La passione, infatti, molto più della Pasqua (la resurrezione) è perfettamente aderente alla vita delle persone, soprattutto nei piccoli paesi, dove il dolore e il lutto sono ancora oggetto di socializzazione. Benché la Chiesa ufficiale non incoraggi i riti popolari, che vengono ritenuti forme laiche di devozione, essi, proprio perché spontanei ed “attivi” sono spesso più sentiti e vissuti di quelli della liturgia ufficiale, che risultano invece imposti e “passivi”. È per questa ragione che essi si traducono in forme di devozione più autentiche e sincere. Ed anche in quanto tali andrebbero studiati. Per comprendere come in una società sostanzialmente desacralizzata come la nostra (ed anche i culti risentono di ciò), resistano ancora brandelli, lacerti, relitti di quel grande disperso della modernità che è il sacro.