Prima nell’ombra a cesello della faggeta. Poi, d’improvviso, nella luce diamantina della pietraia. Ferito agli occhi e al cuore! La rètina inonda la mente di immagini limpide come lacrime. Giù, dietro le fronde già esauste per la siccità, Piano Gaudolino, i Piani di Vacquaro, le valli della Basilicata. Sopra, come una punta di lancia, la pendice scagliata verso la cima di Monte Pollino. Quinte di montagne all’intorno: onde anomale impietrite contro il cielo azzurro. Qua e là i pini loricati. Radi, solitari, in piccoli gruppi: chi impegnato a inerpicarsi verso la vetta; chi ingoiato dai faggi invadenti; chi immobile, a meditare sulla sua vita millenaria; chi artigliato come un’aquila alle rupi; chi con le braccia sollevate in segno di preghiera. Titani, nati dall’amplesso fra Gea, la terra increata, e Urano, il cielo stellato. Simboli delle forze primordiali del Cosmo. Siamo nel Terzo Giardino degli Dei, dopo quelli di Serra di Crispo e di Serra delle Ciavole. Il meno battuto, il meno adorato. Il più impervio, il più periglioso.
Partiti stamani da Colle Impiso, in una giornata d’agosto che i media avevano annunciato d’un caldo intollerabile. E che noi, invece, troviamo fresca, deliziosa. Poca fatica sino a Piano di Gaudolino. Poi su, arrancando nel ripido dedalo dei faggi serpentiformi. Ora, assuefatti alla luce, vaghiamo lenti, estasiati, fra i pini e le rupi. In cerca del bello e del buono: καλὸς καὶ ἀγαθός dicevano i greci. Quando l’estetica era anche etica. Quando alla contemplazione del bello si accompagnava la cura del bello. Quando scienza e tecnica erano ancelle di filosofia, religione, poesia.
Decine, centinaia di pini. Mi perdo fra loro, in loro. Ogni volta è come la prima volta. Non è innamoramento il mio: troppo rapide ed effimere sono le emozioni. È amore piuttosto, è amicizia: sentimenti duraturi e costanti. Non può passare troppo tempo senza che venga quassù a trovare gli dei. Attraversiamo la cima e scendiamo sull’opposto versante, a sud. Lì dove sono altri alberi-dei. Per riabbracciarli uno ad uno. Sino a rituffarci nuovamente verso il moderno mondo dei mortali, quello che ha ribaltato l’antica saggezza dei greci, obliterando tutto tranne scienza e tecnica, recidendo il legame fra bello e buono. Un mondo, in questi giorni d’agosto, preso d’assalto da una cupa frenesia vitalistica. Emulativa, violenta, compulsiva. Che nasce dalla presunzione che solo le nostre vite di umani valgono. Che il bello debba essere solo utile.
Tanti mi chiedono perché vado in montagna. E quando rispondo che cerco il bello e il buono dove la pervasività dell’uomo è più lontana, qualcuno accusa: “tu fai filosofia! L’uomo è più forte della natura. Cerca il bello in mezzo a noi, nella nostra scienza, nella tecnica, nella pura utilità. E lascia il buono ai filosofi, ai preti, ai poeti … e ai primitivi”. Chi mi redarguisce non sa che dietro ogni azione c’è un pensiero, che dietro ogni mezzo c’è un fine, che qualunque scienza, qualunque tecnica non può produrre bellezza (o salvare la bellezza) se chi la pratica non ha prima stabilito a cosa dovrà servire, se non ha pensato il buono: καλὸς καὶ ἀγαθός. Qualcuno ha coniato il termine “scienza servizievole”.
Ecco, quelle montagne, quelle solitudini, quei silenzi, quegli alberi-dei sono gli ultimi custodi della vera conoscenza, della vera sapienza, dell’unione misteriosa del bello col buono.