Nel prepararmi all’invito degli amici dell’Associazione Comitato al Vaglio di Lamezia Terme per discorrere, due sere fa, insieme ad Antonio Pagliuso, Monica Lanzillotta e Luigi Franco, della recente riedizione Rubbettino del romanzo di Cesare Pavese (1908/1950) “Il Carcere” – ambientato in Calabria e scaturito dal confino che l’autore subì dal fascismo a Brancaleone fra il 1935 ed il 1936 – ho voluto leggere o rileggere quanto avevo a mia disposizione su Pavese.
Mi ero avvicinato a questo grande autore da giovane, attratto soprattutto dalle sue poesie, così originali, spesso malinconiche, intimiste, raggruppate sin dal 1966 in un volume degli Oscar Mondadori. Più tardi mi incuriosì il suo carteggio con Ernesto De Martino, il grande antropologo e storico delle religioni, insieme al quale curò per Einaudi “La collana viola” (viola era il colore dell’ombra, dell’irrazionale) che portò in Italia il fior fiore degli studi etnografici, ma anche lavori di mitografia e di psicoanalisi (il carteggio fu pubblicato da Bollati Boringhieri con il titolo stesso della collana). Poi, pian piano passai all’opera in prosa e, imbattendomi ne “Il carcere” volli inserirne la recensione sul mio “Lettere meridiane. Cento libri per conoscere la Calabria” edito da Rubbettino nel 2015. Tanto perché mi interessava il suo sguardo originale, a tratti spietato ma anche – contraddittoriamente – ammaliato sulla Calabria arcaica, segreta, letargico, ancora intrisa di miti greci, di quegli anni, anche in confronto ad altri autori pure presenti nel volume.
L’amico archeologo e studioso di letteratura Antonio Vescio, nell’occasione, mi ha procurato una piccola chicca: la recensione che Franco Costabile (1924/1965), il poeta calabrese di cui ricorre il centenario dalla nascita e su cui si stanno svolgendo importanti iniziative culturali, scrisse, nel 1952, sul diario di Pavese “Il mestiere di vivere” pubblicato proprio in quell’anno, postumo. La recensione, uscita nel numero di agosto della rivista tarantina “La voce del Popolo”, è un commosso tributo di Costabile a Pavese, che egli conobbe all’Einaudi (la casa editrice che Pavese contribuì a fondare insieme a Giulio Einaudi e per la quale lavorò). Ma evidenzia anche un afflato ed una partecipazione colmi di tenerezza verso un artista ed un uomo che Costabile sentiva evidentemente vicino nonostante poetiche e temi fra loro diversi. Forse anche perché Costabile era consapevole della sofferenza nel vivere – molto simile alla sua – che da sempre affiggeva Pavese: entrambi, ad un certo punto, si tolsero volontariamente la vita.
Di quella recensione riporto qui un piccolo florilegio, a dimostrazione dell’ammirazione di Costabile per Pavese e per la partecipazione alla vicenda letteraria ed umana di quest’ultimo: “Non si cerchi però di trovare in queste pagine la zona dove cogliere la spiegazione lampante del gesto finale; essa non c’è. Semmai è da cercarsi nella sua lotta forte e paziente, quella del solitario, che egli conduce contro l’ostile nulla per quindici anni […]. Lotta che tenta l’evasione ‒ la maglia rotta della rete ‒, e porta solo alla sofferenza, che prepara intanto l’ultimo gesto, mai chiesto, mai voluto. Alla fine, rimane «Solo un gesto»; e a scrivere niente altro che questo: «Non scriverò più». […] Così finisce il mestiere di poeta, e finisce anche l’altro, che ha esaminato a lungo, senza poter evitare il terzo, che non è del poeta né dell’uomo, è del destino. Ma le sue lotte sono state vissute alla luce di una profonda umiltà e bontà anche. Ricordo come lui mi accolse un lontano giorno del 1946 a Roma, dall’editore Einaudi. Alto tra i cerchi calmi celesti della sua pipa, e con poche parole, ma che dicevano bontà, cortesia, comprensione, proprio di chi conosce un altro mestiere, quello di soffrire, e vorrebbe, pur restio, chiuso, prenderti a braccetto per cercare insieme, chi sa, forse un raggio di sole.” E conclude, con una vena di amarezza: “Questo era il Pavese; scrittore, uno dei più significativi e più intelligenti della nostra ultima narrativa; e uomo, veramente figlio di questa difficile età.”