Silenzio, nella foresta di Spinalba. Guardo gli alberi: ombre lievemente trafitte dal sole. Dimentico di me, fluttuo su foglie, pietre, fango, terra. Fendo l’intrico dei rami, spalanco le braccia, sollevo il capo verso la volta del bosco: ruotano le fronde contro il cielo pallido, ricamo di fiumi, laghi, stagni. Mi entro dentro. Giù, sempre più giù. La luce filtra appena. Chiazze, raggi, riverberi. La foresta è un mondo immobile. La psiche, invece, s’addensa come magma. Gli alberi, una vertigine. L’anima, un intrico. Per questo quando penetro nella foresta è in me che vago. Per questo quando guardo gli alberi vedo il mio profondo. “Come entrammo in Spinalba il primo moto dell’animo fu quello di guardare in alto […] – scriveva Lorenzo Agnelli nel 1868 – Era un esercito di giganti, che stava in veglia e in guardia; accanto ad uno, che svelto e robusto s’inchiomava in altissima sfera, una torma di altri minori gli si serravano intorno sottilissimi ma dritti […]. Quindi in mezzo a loro, quasi temendo imparentarsi per la soverchia vicinanza, vidi l’abete, che di più severa robustezza con le braccia nereggianti a frappe e frange curve spunta su loro a gronda serrata, allunga il fosco collo e s’aggiusta maestoso e sublime in sovranità di dominio e di comando”. Anch’io giungo al grande abete bianco di Colle del Cucumino. Stupisco dinanzi alle sue straordinarie proporzioni, certo: cinque metri e quaranta di circonferenza e più di quaranta metri di altezza. Ma noto anche particolari. Il sanguinare di resina, scura come ossidiana, dalle ferite del tronco: “la pece bruzia, ch’è la più odorosa ch’io conosca” scrisse Dionigi d’Alicarnasso. E vedo Pan, il dio delle selve. Il suo tronco vivo, virile e selvaggio è incarnazione dell’eterna potenza generatrice. Nelle nostre tradizioni restano ancora i segni di questo intenso simbolismo: la Festa della Pita ad Alessandria del Carretto, sul Pollino, quella della ‘Ntinna a Martone, sulle Serre. Alberi rapiti alla foresta ed eretti nel cuore del paese. Riti intrisi di sensualità ed erotismo. Propiziatori di quella eterna rinascita che è insita nel mondo vegetale. Un albero è potente e duraturo. Perde le foglie in autunno ed a primavera sboccia a nuova vita. Tiene le radici ben salde nella terra e innalza le fronde verso il cielo. Mircea Eliade: “l’albero rappresenta […] il Cosmo vivente, che si rigenera senza interruzione”. Sino ai primi del novecento, Spinalba, Femminamorta, Cucumino erano un’unica, estesa foresta primigenia. Norman Douglas definì il vicino Gariglione “un autentico Urwald o giungla vergine, mai violata da mano umana”. L’Urwald, la foresta sacra dei Germani, sede dei loro miti. Sono trascorsi cento anni da quando asce e seghe, teleferiche e ferrovie dacauville infransero l’aura sacra di quei luoghi: “la foresta precede l’uomo, il deserto lo segue” diceva amaramente René de Chateaubriand. Ma oggi, proprio in quei luoghi, la foresta è spontaneamente rinata sul deserto. Nella foresta ritrovata, i miei passi leggeri, trepidi, commossi. In terra piccoli abeti, come mandrie innumerevoli. Qua e là altri giganti. Hanno in loro tutte le brezze del mare lontano, tutta la chiarità del cielo, tutto l’argento nascosto nelle viscere della terra. La luce meridiana trasforma le visioni. Ora la foresta riluce come un fuoco leggero, come una lampada che scalda. Sono a casa. Ho viaggiato nel mio profondo.
Nelle immagini: il grande abete bianco del Colle del Cucumino, Sila Piccola, Calabria (Parco Nazionale della Sila) e altri scorci della foresta di Spinalba e Femminamorta. Foto Francesco Bevilacqua.