Domenica di primavera. Sentiero nella Foresta di Condrò. Compio spesso questo piccolo cammino di tre ore, ad appena 15 minuti d’auto dall’Anello di Querce, la mia casa sulle colline boscose fra Lamezia Terme e Platania, in Calabria. Dalla mia fuga “dal mondo” (la casa) alla mia immersione “nel Mondo” (la foresta). Questi luoghi richiamano il senso dell’“abitare poeticamente la terra” di Heidegger: sentirsi protetto dal luogo; proteggere il luogo stesso. Come a dire: i luoghi ci salveranno, solo se noi salveremo i luoghi.
Oggi non sono assalito dalla fretta di sperdermi nella natura selvaggia, per compensare l’artificio della vita cittadina. Me la prendo comoda, invece. E mi impongo la visita ad un minuscolo pezzo di Umanità che abita poeticamente la terra, proprio ai margini della Foresta di Condrò. Michele Fragiacomo e Andrea Gullà sono un giovane uomo ed una giovane donna di 33 anni ciascuno. I sociologi definiscono i loro coetanei occidentali col termine “millennials”: quei giovani nati dopo l’avvento delle tecnologie digitali, influenzati dal pensiero unico neo-liberista e globalista. Ma i due sono totalmente diversi da questi stereotipi. Hanno fatto una scelta di vita consapevole e difficile: ritirarsi a vivere a 1000 metri di quota in un luogo isolato, immerso nella foresta: Piano della Spina di Serrastretta, sul versante meridionale di Monte Condrò, nel Gruppo del Reventino-Mancuso, che i geografi chiamano anche Presila Catanzarese.
Michele e Andrea non li troverete sui social, vestono con semplicità, non conoscono movide, aperitivi e lounge bar, non emigrano per trovare lavoro, non inseguono ricchezza e successo, rifuggono le concentrazioni urbane, hanno una concezione quasi francescana della vita. “Sono figlio di Pasquale, italiano, e Doris, tedesca – dice Michele -, che a Lamezia Terme misero su una delle prime coltivazioni biologiche del Sud Italia. Da loro ho imparato tutto. Quando ho conosciuto Andrea, che aveva un negozio di prodotti bio a Catanzaro lido, abbiamo chiesto a mio padre di poterci trasferire a vivere qui. Avevamo voglia di essere autonomi, di imparare l’agricoltura dai nostri errori, di vivere immersi nella natura”. Così, il primo gennaio del 2020 Michele e Andrea lasciano le loro case in città e si trasferiscono a Piano della Spina, occupando una vecchia casa con i muri in pietra, priva delle più elementari comodità. Dopo pochi giorni, chiunque avrebbe rinunciato a quella che alla gran parte dei nostri giovani può sembrare una follia. Ma i due non demordono. Pian piano, ispirandosi ai principi dell’agricoltura biodinamica, dove prima c’erano solo rovi, mettono su orti, piantagioni di ribes, mirtilli, fragole, lamponi, un frutteto di mele e pere. Con l’aiuto di papà Pasquale, i due restaurano un’altra casa, diroccata, posta subito sopra la prima. Ne ricavano la loro nuova abitazione: un soggiorno-cucina a piano terra, con i servizi igienici; una sorta di mansarda per la camera da letto; una veranda da cui si scorgono l’Istmo di Marcellinara, il Mar Jonio, le montagne a sud. “Abbiamo fatto quasi tutto da soli, con l’aiuto di Pasquale – dice Andrea -: le murature, il tetto, il pavimento in legno, perfino il camino termico che riscalda la casa. Gli infissi li abbiamo trovati per strada, abbandonati. Ciò che gli altri gettano, noi lo ricicliamo.” La casa che li ha ospitati nei primi mesi è ora in parte laboratorio-deposito, in parte foresteria per gli ospiti. Attraverso il programma internazionale “Work Away”, infatti, giungono qui giovani provenienti da ogni parte del mondo (Belgio, Olanda, Francia, Germania, Danimarca, Est Europeo, America Latina, Asia, Australia). Restano da poche settimane a qualche mese, aiutano nei lavori agricoli per cinque ore giornaliere e per il resto viaggiano nelle vicinanze e chi ha un’auto, nel resto della Calabria. Michele e Andrea offrono loro vitto e alloggio. Nel prato, custoditi da un gruppo di cani trovatelli, vagano liberi capre, pecore, animali da cortile che Michele e Andrea hanno voluto per completare il quadro di un luogo che pare uscito da un idillio di Teocrito.
“Visto che i frutti di bosco vengono bene – aggiunge Michele – mio padre mi ha proposto di mettere a coltura altra terra. Ma io ho detto di no. Fin dove arriviamo con le nostre forze va bene. Oltre non ci interessa. Non abbiamo l’obiettivo di arricchirci. Vogliamo farci bastare ciò che abbiamo. Vogliamo avere il tempo per riposare, godere della bellezza che c’è intorno a noi, ammirare il bosco, gli animali, il cielo, le nuvole”. Mi pare di ascoltare i memorabili discorsi che José Mujica, il leggendario presidente-contadino dell’Uruguay, declamava a braccio dinanzi ai grandi del mondo, elogiando la sobrietà e la misura, il valore del tempo, che nessun lavoro, nessuna brama di potere e successo potrà mai restituirci. Mi pare di rileggere i libri sulla decrescita serena dell’economista Serge Latouche, per il quale l’accumulazione illimitata di profitti grazie al consumo delle risorse stride con la finitezza delle risorse stesse, ed una crescita infinita è solo un’illusione, che prima o poi ci chiederà il conto, come sta già accadendo.
A Michele e Andrea non mancano le cose che invece sono indispensabili per i loro coetanei millenials: uno stipendio fisso, l’ipertrofia del desiderio da placare nei centri commerciali o su Amazon, i cinema ed i teatri, i ristoranti, i concerti, gli stadi, le masse omologate, la televisione, i viaggi all’estero per inanellare souvenir di luoghi esotici come fossero trofei di caccia, la realtà virtuale. Michele e Andrea amano questa terra semplicemente perché vi sono nati e sanno che essa possiede “la ricchizza de la povertati”, come recita un vecchio adagio calabrese. Hanno compreso che la felicità non è avere di più, sempre di più, ma farsi bastare ciò che si ha.
Michele e Andrea, tuttavia, non sono degli eremiti assoluti, non sono dei mistici che praticano la fuga dal mondo. Hanno amici che la pensano come loro sulla vita e sul mondo, hanno la gente del paese, hanno gli ospiti stranieri. Si consentono, quando lo desiderano, qualche sortita in città. Vivono, insomma, una sorta di clausura sanamente relazionale, rifiutano di uniformarsi all’omologazione imperante, senza abbracciare, però, gli estremismi ideologici dei ribellisti delle grandi città. Ecco, Michele e Andrea, Piano Spina, la Foresta di Condrò Sono la materializzazione di quel “mondo semplice”, di quel “pensare come le montagne” di cui scriveva Aldo Leopold in un libro sull’etica della Terra. Sono la prova che un altro mondo, un’altra vita sono ancora possibili. E che in una Calabria povera e spopolata, senza metropoli e senza fabbriche, “senza peccato e senza redenzione” (come scriverebbe Carlo Levi), vi sono risorse, paesaggi, spazio, tempo, solitudine, silenzio in abbondanza per vivere ancora utopie concrete.