FLAGELLANTI DI NOCERA TERINESE: PREVALE IL SENSO DI COMUNITA’.

Ci si ostina, sovente, a dire male (che non è poi così diverso dal “maledire”) della Calabria e dei Calabresi. Ovunque, dai giornali nazionali – tranne poche eccezioni – agli istituti di ricerca, è un continuo stigmatizzare quel che non va nella regione più a sud del Sud. Anche nell’occasione della vicenda del divieto – ora rientrato – opposto all’antico rito dei flagellanti (“vattienti”) di Nocera Terinese, non sono stati pochi coloro che hanno rispolverato i classici pregiudizi sulla Calabria arretrata, oscurantista, arroccata in una celebrazione di forme identitarie ormai improponibili. Questa volta però, le critiche malevole si sono lette per lo più nei commenti agli articoli di chi si è schierato sin dal primo momento contro il divieto e le sue insostenibili – a tratti paradossali – motivazioni.

Nella vicenda di Nocera, tuttavia la mobilitazione dei giornali calabresi – primo fra tutti il Corriere della Calabria – e la protesta corale della comunità locale (e non solo) sono alla base del ribaltamento di una decisione che, sul piano amministrativo, appariva pressoché impossibile. Nell’occasione, dunque, quella consuetudine di “male-dire”, tipica degli estranei alla realtà calabrese, ma anche quella dell’auto-flagellarsi (per restare in tema con il rito di Nocera) degli stessi Calabresi, si sono ribaltati, consentendo alla comunità di poter ancora disporre del “bene comune” che le era stato sottratto. Un po’ come è accaduto pochi mesi fa su Monte Coppari, dove l’azione unitaria delle comunità di Monterosso, Capistrano e Polia supportata dall’opinione pubblica di tutta la Calabria ha scongiurato la devastazione della foresta sommitale con un impianto eolico. Bene comune materiale il secondo (paesaggio), ma bene comune immateriale anche il primo (tradizione).

Non era un compito facile quello di chi ha tentato di “bene-dire” del rito di Nocera, perché il sangue dei “vattienti” fa paura; e per certe mentalità neo-razionaliste quel sangue è indifendibile. Sintomatico il fatto che perfino nel verbale che ha ristabilito la liceità del rito la parola “sangue” non venga mai pronunciata, sostituita invece dall’anodina locuzione “fluidi corporei”. Il sangue, per tali mentalità, è quello degli ammazzamenti per strada, degli incidenti, dei cadaveri e dei feriti. Chi è intriso di positivismo ateo o anche solo laicista, di chi nega il sovrannaturale, lo spirito religioso, il sacro non potrà mai comprendere un rito come quello di Nocera. Perfino qualche uomo di fede ha deriso il rito citando a suffragio un alto prelato, il quale, a proposito del rito di Nocera, avrebbe detto: “Ma davvero Dio vuole che ci facciamo male nel rapporto con lui? Davvero le mie gambe, il mio petto devono sanguinare perché io possa dimostrare la mia devozione?” Dimentica, chi fa sua questa asserzione, che quel “male” non lo vuole Dio: lo vogliono gli uomini. Le religioni, infatti, sono culture cioè modi di concepire il mondo e la vita all’interno di una comunità. Le religioni le hanno inventate gli uomini, non Dio. I “vattienti” si flagellano per un loro bisogno interiore, non per ordine di Dio. I “vattienti” vogliono evocare pubblicamente la sofferenza – in un mondo che tende a nasconderla e ad emarginarla – per ristabilire un “equilibrio” che è il loro equilibrio e nello stesso tempo quello di un’intera comunità. È la cultura degli uomini, non Dio, che sceglie le “forme della festa”, come titola un bel libro curato da Francesco Faeta ed Antonello Ricci sui riti della Settimana Santa in Calabria, nel quale ampio spazio viene dato ai “vattienti” di Verbicaro e di Nocera, con testi dello stesso Faeta e di Franco Ferlaino.

Chi osserva con ribrezzo le foto delle gambe sanguinanti dei “vattienti” dimentica la profonda simbologia religiosa del sangue. Una simbologia che risale a ben prima del cristianesimo e che ha a che fare esattamente con la Pasqua che ci accingiamo a celebrare, alla festa della resurrezione di Cristo, che, per il popolo, è anche, come nei secoli del paganesimo, festa di rinascita e di rigenerazione. Esattamente come la primavera è da sempre festa di riapparizione della vegetazione dopo il lungo “lutto invernale” in cui gli uomini hanno temuto che la pianta edibile per antonomasia, il grano, dopo la “tragedia” della mietitura, non rispuntasse dalla terra (Ernesto De Martino). Chi osserva con ribrezzo il sangue dimentica anche il centro dell’eucarestia cristiana: “il corpo e il sangue di Cristo donato per noi e per gli altri in remissione dei nostri peccati” (anche qui, il messaggio è la salvezza e la resurrezione). Chi osserva con ribrezzo il sangue dimentica il mito precristiano di Cibele, addolorata per la morte di Attis, che fa rifiorire l’albero presso cui Attis si era ucciso (e con esso tutta la natura) esattamente con lo sversamento rituale del sangue da parte dei sacerdoti.

Dunque a quel sangue che cola dalle gambe dei “vattienti” insieme al suo doppio simbolico, il vino, occorre guardare con occhi diversi da quelli disincarnati di chi vive in “mondi” (le città) che hanno perso l’antico senso della comunità. Bisogna invece immergersi, se davvero si vuol capire, nel “Mondo” dei piccoli luoghi (i paesi) che la storia ha espropriato di tutto e le cui comunità, spesso disseminate per tutto il Pianeta, vogliono tener vivi attraverso il culto della memoria, delle tradizioni, dei riti. È questo il senso del sacro, del “separato dal profano” (Umberto Galimberti), del “numinoso” (Mircea Eliade), del “tremendo” (Rudolph Otto) che è alla base di ogni forma “devozionale” verso una riconosciuta dimensione altra alla quale il devoto intende connettersi, ristabilendo, seppure per poche ore, l’antica, perduta armonia.

Per questo motivo, chi in questi giorni si è anche solo incuriosito per la vicenda di Nocera, vada a far visita alla comunità non solo nel momento “spettacolare” in cui i “vattienti” corrono per il paese, ma in qualunque altro momento dell’anno, per stupirsi dinanzi a tutti i “beni comuni” di quel luogo: dai vichi solitari alle architetture, dalle chiese alle rovine, dagli orti ai coltivi, dai paesaggi del mare e della montagna sino al modo con cui la gente prova ad accettare la modernità senza perdere la memoria. Proprio in questi giorni, in via S. Caterina è visitabile una mostra fotografica sul rito, tratta da un recente libro di Valentino Guido, Alessandro Coccimiglio e Guido Guglielmelli dal titolo “Ecce homo” in cui la vicenda dell’antico rito dei “vattienti” è rievocata con testi e fotografie.

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