Il vecchio pino sonnecchia nella neve. Il tronco strinato dal ghiaccio, la galaverna sui rami e sulle fronde. Sta sognando. Sogna di essere un esile pino della Taiga siberiana. Sa bene che i suoi cugini nordici sono più piccoli e tristi. Mentre lui e i suoi fratelli, qui, sono grandi e gioiosi. Grazie al sole, al clima, alla vicinanza del mare, alla fertilità dei terreni, alle piogge, alla compagnia. Mi avvicino e ascolto i suoi pensieri. Per qualche minuto neppure distinguo fra i miei ed i suoi. Io sono l’albero, l’albero è me. Creature che pensano all’unisono, condividono, si immedesimano. Unite da arcane sintonie, da affinità elettive. È il mistero dell’amicizia.
Anch’io sprofondo in una dimensione onirica. Sogno di essere in un luogo molto più a nord. Al confine fra Russia e Cina. Come nel film “Dersù Uzalà” di Kurosawa. Vi si racconta di un uomo solitario che vive fra i boschi, nella regione dell’Ussuri. Dersù è una creatura della Taiga, vive in rifugi temporanei, d’estate e d’inverno. Vaga di continuo in un labirinto di foreste ataviche, fiumi impetuosi, pianure sconfinate, paludi ghiacciate, montagne dedaliche. Cacciando e cogliendo frutti selvatici. Il film è tratto dal diario di viaggio di un ufficiale dell’Armata Rossa, Vladimir Arsen’ev, inviato in quelle terre remote per delle esplorazioni geografiche. L’ufficiale incontra Dersù, col quale affronta avventure straordinarie, stringe un’amicizia indelebile. Vladimir si emoziona dinanzi all’umiltà, alla sapienza semplice, alla mitezza, alla tenerezza di Dersù. Lui, colto, evoluto, scienziato, prova ammirazione per un incolto, primitivo, animista, che crede nella magia e nell’incanto del mondo. Anche qui, l’arcano dell’amicizia.
Stiamo in ascolto per qualche minuto, l’albero ed io, in silenzio. Oggi la Sila è spazzata da un gelo artico che viene da nord-est. Con Sasà ci siamo sentiti più volte, nei giorni scorsi, per tenere d’occhio il prodursi delle condizioni che attendevamo per la zona di Longobucco, aperta agli influssi dell’aria fredda dei Balcani. Ci sono, oltre lui e me, anche Saverio e Roberto: colti dallo stesso stupore onirico dinanzi allo spettacolo che ci accoglie, dalla stessa follia che ci spinge ad andare dove nessuno andrebbe, a confortarci l’un l’altro per la nostra diversità che pochi comprendono. L’immenso tetto di nubi è una grigia e scura calotta, trapunta, immobile. La foresta attorno a Serra La Vurga ammantata in una sontuosa veste nuziale: pizzi, merletti, ricami, drappi. Procediamo timidi fra le sue navate. Quattro piccole ombre nell’immenso. Quattro cuori che battono all’unisono.
Alle Conche di Macrocioli, la foresta lascia spazio ad un altopiano spoglio che sorge fra le valli del Trionto e del Petrone. Un pezzo di Tundra scagliato nel centro del Mediterraneo. Il mare si scorge lontano ad oriente, con il suo azzurro che luccica fra i grigi e i bianchi delle montagne. Dall’orlo scosceso di Erbuzzietto, si squaderna la visione senza tempo della Valle del Trionto e, sul lato opposto, la mole del Paleparto: un unico, immenso ricamo bianco. Stringiamo il paesaggio con lo sguardo, le braccia, il cuore, la psiche. Laggiù, in fondo, il tiepido grumo del paese, stretto come un gregge addormentato. Intorno, la cima costellata di massi di granito da cui pendono stalattiti di ghiaccio. Fermi, ora sul nostro tetto del mondo, ansimanti, gelati, stupiti.
Tutto, qui, è cura, medicina, taumaturgia. Per noi, che cerchiamo di dare senso alle nostre vite spaurite. Per noi e i pini, gli abeti, i faggi, le nubi, il cielo, l’aria, il vento, le montagne, le valli, le rocce, il mare, la neve: rovine disseminate fra solitudini; esseri effimeri, consci che verrà la fine, eppure ancora capaci di meravigliarsi e gioire; amici stanchi ma mai sazi.