Concetti Chiave per Francesco Bevilacqua
TERRA MADRE
Detta anche Grande Dea. Chiamata da Robert Graves Dea Bianca. Divinità primeva del Mediterraneo, ma anche di molte altre regioni del mondo. Più antica di Gea, di Iside, di Demetra, di tutte le dee della fertilità. Studiata, tra gli altri, da Marija Gimbutas attraverso i suoi simboli in archeologia. Tellus Mater per i romani. La Grande Dea partenogenetica (autofecondata) era madre di tutto, principio di creazione, datrice di vita e di morte, fondamento di società matrilineari, pacifiche dedite al culto della bellezza e delle arti. Il mondo della Terra Madre fu distrutto dall’arrivo nel bacino del Mediterraneo di popolazioni maschiliste e guerriere di stirpe indo europea. Ma segni talvolta inconsapevoli dell’antico culto della Terra Madre persistono in riti, pratiche, memorie, tradizioni. Per alcuni uno di questi segni sta nei famosi versi di San Francesco d’Assisi tratto dal Cantico delle creature: “Laudato si, mi Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta e governa“. Secondo Mircea Eliade il culto della Terra Madre è il più longevo e duraturo che la storia delle religioni ricordi.
GENIUS LOCI
Antica divinità latina che proteggeva e nello stesso tempo rendeva individuale e unico il luogo. Spirito guida del luogo. Rappresenta il “senso” profondo del luogo. Nullus locus sine genio (non c’è luogo senza genio) scrive Servio. Un preciso riferimento al Genius loci è presente in due passi dell’Eneide. Per gli antichi greci era il Daimon, lo spirito adempitore della vera missione di un uomo sulla terra. Per Paolo D’Angelo il Genius loci rappresenta l’identità estetica del luogo. Christian Norberg-Schulz, richiamandosi al principio di individuazione di Carl Gustav Jung, osserva che anche i luoghi tendono ad autorealizzarsi. Dunque, un luogo non può divenire – pena la sua dissoluzione – ciò che non “voleva” essere.
NON UOMINI
Sono quegli umani che hanno perduto l’umanità. Coloro che non conoscono la compassione, la condivisione, la relazione, l’empatia, la pietà, la solidarietà. Sono coloro che non si credono parte di un tutto ma centro di tutto. I burattinai della Terra, i carnefici, i detentori mondiali della finanza e della politica criminali, capaci di condizionare le sorti di interi stati, interi popoli. Ma anche le vittime, gli automi, le macchine, i robot, i burattini progettati per una sola libertà: consumare. Coloro che hanno perso il senso della storia e della memoria. Coloro che non posseggono più personalità vere, che fanno, pensano, dicono tutti le stesse cose. Coloro per i quali l’altro è un competitore, un antagonista o, al più, una cosa da usare a piacimento. Sono gli uomini di cui parlano Konrad Lorenz ne “Il declino dell’umanità” o George Orwell in “La fattoria degli animali” ed in “1984“.
ANIMISMO, PANPSICHISMO, ILOZOISMO
Tre antiche forme di filosofia e religione, molto vicine tra loro, che contraddicono il moderno antropocentrismo. Animismo: esseri spirituali animano la natura. Panpsichismo: l’intera realtà è animata. Ilozoismo: la materia è una forza dinamica vivente che ha in sé animazione, movimento e sensibilità. Il grande pensiero filosofico calabrese è vicino a queste concezioni, soprattutto con Bernardino Telesio e Tommaso Campanella. Queste tre concezioni sono tornate di stretta attualità per effetto delle parallele acquisizioni della fisica quantistica, come ricorda in “Questa vita” Vito Mancuso. Fine della dicotomia tra materia e spirito. Fine di una concezione esclusivamente competitiva dell’evoluzione. Inizio di una concezione della Terra come creatura senziente. Nascita di un’idea di evoluzione che passa attraverso la condivisione, l’aggregazione, la cooperazione.
PENSIERO MERIDIANO
Espressione coniata da Albert Camus in “L’uomo in rivolta” per richiamare lo spirito greco antico che pone al centro della riflessione filosofica il rapporto originario e profondo tra uomo e natura. Si intravede qui una contrapposizione tra due distinte concezioni del mondo: una nord europea, basata sulla rimozione del rapporto con il sacro e con la natura; l’altra sud europea, che propugna, invece, un intreccio armonico tra umano, divino e naturale. Al nichilismo europeo, avvolto nelle tenebre dell’assolutismo storicista, Camus oppone lo spirito mediterraneo, coi suoi richiami alla sacralità del mondo e della vita. Il pensiero meridiano è la riscoperta di questo Sud rimosso e il suo collegamento a una forma di vita non ostaggio della tecnica, capace di misura. Intorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, alcuni studiosi, tra cui Franco Cassano, Mario Alcaro, Piero Bevilacqua, Franco Piperno, si ritrovano nello sviluppare le tesi di Camus e propugnano un pensiero del “Sud che pensi il Sud”. Il Sud diviene soggetto di pensiero proprio e dismette gli abiti dell’oggetto di pensiero altrui. E’ una rivendicazione di autonomia culturale, etica, spirituale innanzitutto e poi anche politica. E’ necessario contrapporre alla omologazione ed allo sviluppo etero diretto, la rivitalizzazione delle culture locali, la reinvenzione delle radici storiche comuni, la riaffermazione delle proprie identità collettive, la rinascita del “locale” in una relazione più equa con il globale. Il tutto senza infingimenti verso separatismi, rivendicazionismi, autonomismi, presunzioni, retoriche identitarie.
EURISTICA DELLA SOBRIETA’
L’euristica (da euristeo = scopro, provo) è un aspetto del metodo scientifico che comprende un insieme di strategie, tecniche, e procedimenti inventivi per cercare una teoria capace di risolvere un problema dato. L’umanità vive nel mito della crescita illimitata. Che comporta il consumo massivo di risorse che sono, invece, limitate. Questa illusione ci porterà all’autodistruzione: il problema dato è esattamente questo. Al mito della crescita illimitata, al dogma del mercato che si autoregola, alla certezza che l’unica soluzione è la competizione spietata, bisogna contrapporre un’euristica della sobrietà. Dove sobrietà sta per essere felici con quanto è necessario per esserlo, sta per essere consapevoli che i nostri singoli comportamenti possono influenzare il futuro dell’intera umanità.
PEDAGOGIA DELLA PARSIMONIA
Fino a circa due secoli fa, quasi tutte le società attuavano la strategia del risparmio: le risorse, quelle collettive ma anche quelle economiche di ciascuna famiglia, andavano preservate per i momenti di bisogno. La crescita esponenziale della tecnica, l’idea che attraverso la tecnica si possa modificare a piacimento la natura – e persino sanare le ferite che quotidianamente infliggiamo alla natura -, l’apoteosi del mercato libero, la strategia dell’obsolescenza delle cose (ogni oggetto viene prodotto con in sé una precisa data in cui non sarà più utilizzabile e occorrerà comperarne un altro), l’abiura da parte delle banche di qualunque incentivazione al risparmio, i continui inviti della politica a consumare di più, hanno distrutto l’attitudine al risparmio delle persone. La qualcosa si trasforma in una continua dissipazione della ricchezza dalle classi basse e medie in favore dei pochi detentori delle maggiori risorse finanziarie e degli speculatori. Da qui la necessità di un’educazione, sin dalla più tenera età, ad amare la parsimonia come stile di vita.
ETICA DELLA MEMORIA
Corrado Alvaro, in “Gente in Aspromonte” scrive: “è una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie“. La frase di Alvaro è un manifesto. Primo, quella che scompare è, benché misera, una civiltà, ossia un coacervo di valori e cultura prodottisi nel tempo. Quindi non semplicemente un “mondo di vinti“, per parafrasare Nuto Revelli. Secondo, sul cambiamento non c’è da piangere, non bisogna cioè disperarsi e sprofondare in una melanconia da “fine del mondo“, da “apocalisse culturale” per parafrasare, questa volta Ernesto De Martino. Terzo, bisogna che soprattutto chi resta nei luoghi conservi il massimo della memoria: metterà, ad esempio ai piedi della scarpe moderne e confortevoli ma non dimenticherà a cosa servivano e come erano fatte le calandrelle dei pastori. Perché “La catena della memoria – come scrive Umberto Galimberti – è la trama che consente all’uomo identità e ideazione“. Come a dire che senza memoria non può esserci futuro. O, per dirla con Carlo Levi, “il futuro ha un cuore antico“.
DIRITTO ALLA NOSTALGIA
Notalgia – da nòstos = ritorno in patria e àlgos = dolore, tristezza – è un termine che è stato usato per la prima volta nel Settecento dal medico svizzero Johannes Hofer a proposito del sentimento che i suoi connazionali provavano quando erano lontani dalle loro vallate: un sentimento simile ad una malattia, da intendere come sofferenza per la sottrazione di un ambiente, di un’atmosfera, di un paesaggio così particolare come è quello delle Alpi. Quindi nostalgia tanto più sofferta quanto più profondo è il legame con i luoghi. Quello di cui parlava Hofer per gli svizzeri non è un sentimento molto dissimile dalla nostalgia che provavano gli emigranti calabresi rispetto al proprio paese. Ma la nostalgia non è affatto un sentimento inerte, autoreferenziale, di puro compiacimento, immobilista. E’ invece è un sentimento etico. E in quanto sentimento implica una passione, un patire le cose. Perché, come avverte Eugenio Turri in “Il paesaggio come teatro”, la nostalgia opera sulle comunità e i loro paesaggi come un protettore fisiologico. La nostalgia induce cioè, gli abitanti a conservare l’integrità dei luoghi dove si sono svolte le recitazioni degli uomini. La nostalgia è un medicamento, una forza endogena che impedisce la messa in vendita del territorio, la cancellazione della memoria, la trasformazione delle rovine in macerie. La nostalgia è l’ultima forma di resistenza alla omologazione culturale.
COMPLESSO DI INFERIORITA’
Diversi autori che si sono occupati del Sud e della Calabria, in particolare tre narratori quali Carlo Levi (in “Cristo si è fermato ad Eboli”), Pier Paolo Pasolini (in “Le belle bandiere”), Giuseppe Berto (in “Il mare dove nascono i miti”) hanno indicato come causa essenziale della condizione di sfiducia che grava sul Mezzogiorno, il complesso di inferiorità che affligge le popolazioni del Mezzogiorno. Un complesso indotto dalla storia e che riguarda la civiltà contadina e pastorale del Sud rispetto alla civiltà industriale del Nord. Questo complesso ha prodotto indolenza, ignavia, attesa, mancanza di auto-stima, perdita di senso, mancato rispetto verso la propria memoria, verso i beni comuni, verso il paesaggio.
LUOGHI PERDUTI
Luoghi un tempo identitari, storici, relazionali, secondo l’accezione di Marc Augé, che oggi non hanno più una funzione culturale per chi vi abita vicino. Luoghi che mantengono toponimi antichi (segno questo, che l’uomo li fece propri, come insegna Eugenio Turri), il cui significato è però stato dimenticato. Luoghi il cui Genius loci è come sparito, benché viva celato, incubico. Ma sempre pronto a riemergere, se solo uomini consapevoli lo richiamano alla luce.
AMNESIA DEI LUOGHI
Malattia endemica ed epidemica che ha colpito la Calabria e il Sud in genere (ma anche molte altre regioni della Terra) negli ultimi cento anni. Le popolazioni di antica civiltà contadina consideravano i luoghi come loro comprimari nella dura ma sorprendente esperienza della vita. Li conoscevano uno ad uno, li chiamavano per nome, ne assumevano le funzioni materiali e simboliche, li consideravano iconemi, ossia segni distintivi del paesaggio (si pensi ad una rupe, ad un bosco, ad un corso d’acqua). Venuta meno la civiltà contadina, decadute le antiche pratiche agro-silvo-pastorali, i centri abitati si sono trasformati in aggregazioni umane avulse dal territorio circostante, dimentiche dei luoghi e delle loro antiche funzioni. La gran parte della gente non (ri)conosce più i luoghi in cui abita, li ritiene privi di utilità e di valore anche culturale.
COMA TOPOGRAFICO
Condizione ordinaria di tutti coloro che sono stati colpiti dall’amnesia del luoghi. E’ una situazione di assenza di attività cerebrale – quindi intellettiva, sensoriale, culturale, psichica – delle comunità locali rispetto al contesto topografico in cui vivono. Le quali comunità sopravvivono per lo più avulse dal paesaggio che non vedono perché non riescono più a (ri)conoscerlo come proprio. E perché di quel paesaggio non avvertono il senso.
PAESITA’
Consapevolezza che “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei, resta ad aspettari” (Cesare Pavese). Certezza che “per non essere provinciali occorre avere un villaggio vivente nella memoria” (Ernesto De Martino). Coscienza che “nasciamo, per così dire, provvisoriamente in un luogo; è a poco a poco che componiamo in noi il luogo della nostra origine, per rinascervi in un secondo tempo e ogni giorno più definitivamente” (Rainer Maria Rilke).
PAESAGGIO COME COMUNITA’
Il paesaggio non è solo il contenitore fisico, naturale, culturale di una comunità. E’ parte della comunità stessa. E’ componente essenziale di una data comunità, al pari degli uomini e delle donne che vi vivono. E’ parte dell’identità culturale di un popolo, come dice la Convenzione europea del paesaggio. “E ora di estendere il confine della “comunità per includervi suolo, acque, piante e animali, o, in una parola sola, la terra” (Aldo Leopold). Non vi è paesaggio senza comunità. Non vi è comunità senza paesaggio.
CRISI DEL PAESAGGIO INTERIORE
Così come vi è un inconscio collettivo (Carl Gustav Jung) nel quale confluiscono contenuti archetipici, ossia forme preesistenti ed “innate”, allo stesso modo la capacità percettiva degli esseri umani produce nelle menti degli abitanti-osservatori di un determinato paesaggio una sorta di inconscio collettivo territoriale o di archetipo di un determinato paesaggio. Questo sedimento inconscio del paesaggio si può definire “paesaggio interiore”. Ciascun componente di una comunità – e la comunità nel suo insieme – per il solo fatto di essere nato in un determinato paesaggio, di averne ricevuto le stimmate dai suoi avi, di avervi vissuto quantomeno da giovane, è portatore di una visione profonda e inconscia del proprio paesaggio. Si tratta di una visione innata perché dipendente dal senso che quel territorio ha per la gente che lo abita e lo ha abitato per secoli. La crisi contemporanea del paesaggio interiore è determinata dalla omologazione dei modelli di vita imperanti, dalla scomparsa dei valori tradizionali, dalla perdita di memoria.
TERRITORIALISMO
Movimento culturale (ora anche “Società dei territorialisti/e”) che vede il territorio di una data comunità come bene comune nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva e il paesaggio in quanto sua manifestazione sensibile. Ritiene che si stia assistendo ad un grave processo di marginalizzazione, rimozione, degrado, decontestualizzazione dei luoghi, dei paesaggi, degli ambienti di vita delle popolazioni e delle relazioni conviviali di prossimità mediante la crescita esponenziale di una seconda natura artificiale, di sterminate urbanizzazioni posturbane, e la riduzione del territorio a mero supporto delle attività economiche. Propugna una dimensione locale della vita comunitaria, che evidenzi unicità, peculiarità, identità del luogo ma che, nello stesso tempo, sia libera da declinazioni discriminatorie (etnocentriche, xenofobiche, neo-nazionaliste e razziste), aperta all’esterno, alla diversità. Incentiva innovazioni in linea con le tradizioni, stili di vita nuovi, visioni antieconomiciste dello sviluppo, qualità dell’ambiente e del paesaggio, cittadinanza attiva, coscienza del luogo, saperi locali, autogoverno.
GEOFILOSOFIA
Doppia accezione. La prima, quella di Gilles Deleuze e Félix Guattari (in “Che cos’è la filosofia”), secondo i quali la geofilosofia analizza ed interpreta come il pensiero si realizza nel rapporto tra territorio (singolo territorio) e terra. Il tema essenziale è quello della pluralità e delle differenze dei e tra i luoghi della terra a confronto con la crescente omologazione culturale. La seconda, quella di Luisa Bonesio (in “Geofilosofia del paesaggio” e nel sito www.geofilosofia.it che anima insieme a Caterina Resta), per la quale, nel contesto contemporaneo di deterritorializzazione e di individualismo apolide, un nuovo discorso geosimbolico, che sintetizzi geografia, estetica e filosofia, è possibile. Nel tentativo di restituire valore culturale ai luoghi ed all’appartenenza (ma in contrapposizione a qualunque retorica identitaria). Per salvare i luoghi e gli uomini. Con la consapevolezza, come dice Mircea Eliade, che “In qualsiasi posto c’è un Centro del Mondo”.
CLINICHE DEI RISVEGLI
Sono le istituzioni socio-sanitarie, in massima parte private, che dovrebbero sovrintendere alla diagnosi e cura dell’amnesia dei luoghi, alla risoluzione della crisi del paesaggio interiore, al trattamento del coma topografico. Istituzioni, associazioni, gruppi spontanei, imprese vocazionali, scuole, attività di animazione culturale, che si prefiggano di riconnettere gli uomini ai luoghi, di riannodare il filo reciso tra le comunità ed i loro contesti ambientali e paesaggistici.
OMEOPATIA DEL BRUTTO
E’ il primo approccio terapeutico allo shock da devastazione ambientale che può cogliere un forestiero che giunga in Calabria per la prima volta: la vista del caos urbanistico, degli scempi, degli incendi estivi, delle discariche di rifiuti, dei diboscamenti scriteriati. Per evitare che questo shock provochi l’immediato ribrezzo nel visitatore (e lo induca a non venire più in Calabria), occorre prepararlo alla bruttezza. Utile fargli vedere prima il brutto ed il peggio della Calabria. Piccole dosi di bruttezza, come in una cura omeopatica. Dopo che avrà digerito, compreso, contestualizzato storicamente il brutto della Calabria, sarà più propenso ad amare il tanto bello della Calabria, di apprezzarlo, di aiutarci a salvarlo, di farsene egli stesso tutore.
OIKOFILIA
“Amore per la casa”, intesa come luogo, paese, patria. E’ la medicina da inoculare negli abitanti. Per guarirli dall’amnesia del luoghi, risvegliarli dal coma topografico, indurli a farsi tutori del loro habitat, del paesaggio, dei beni culturali, della memoria. La cura è rappresentata da letture, cammini, narrazioni, arti, creazioni, innovazioni, tradizioni, intraprese, tutte strettamente connesse alle vocazioni dei luoghi. L’oikofilia trova il suo fondamento nella tesi sull’abitare di Martin Heidegger secondo il quale il significato etimologico del verbo tedesco wohnen = abitare, è doppio: da un lato, vuol dire sentirsi protetti dalla propria casa-luogo; dall’altro significa proteggere la propria casa-luogo.
STANZIALITA’ ERRANTE
Il verbo “viaggiare” non si coniuga in un solo modo. Viaggiare non significa solo solcare immensi oceani, scalare grandi montagne, trasvolare interi continenti. Viaggiare non è inanellare mete esotiche, una dopo l’altra, come se fossero trofei di caccia. Si può viaggiare anche intorno alla propria camera (Xavier De Maistre) o facendo una passeggiata (Robert Walser, Jean Jacques Rousseau) o camminando quotidianamente nelle montagne vicino casa (Henry David Thoreau, William Wordsworth). Stanzialità errante significa aver scelto di viaggiare nei luoghi eletti come proprie patrie. Vuol dire circoscrivere alle proprie patrie l’esperienza del viaggiare. Stanzialità errante è risiedere in un luogo, esserne abitante, avere radici, eppure non finire mai di scoprire il luogo stesso, in tutte le sue pieghe, in tutti i suoi versanti, in tutti i suoi anfratti. Avendo a cuore la sua natura, i suoi paesaggi, la sua storia, la sua umanità. Sentendosi interessato perché quello è il luogo avito. Perché il viaggiare ha nello stesso tempo un’estensione geografica ma anche una dimensione interiore. “Io sono un viaggiatore e un navigatore – scrive Kahil Gibran – ed ogni giorno scopro una nuova regione della mia anima”.
ESCURSIONISMO CLAUSTRALE
Si cammina come i monaci nel chiostro. In pochi ed in silenzio. O dicendo solo parole profonde. Si rifugge dai gruppi numerosi, vocianti, superficiali, animati da un semplice intento ludico, edonistico o atletico. Si fatica sapendo che la sofferenza è il prezzo della conoscenza e della consapevolezza. Si cammina riflettendo, gioendo, rendendo grazia, pregando. Ci si commuove dinanzi alla bellezza del creato. Ci si sente piccole parti di un tutto. Si è consapevoli della nostra responsabilità individuale e collettiva (Hans Jonas). Si percepisce l’anima delle cose e del mondo.
SCIAMANO CULTURALE.
Lo sciamano culturale è un medium tra gli uomini e i luoghi. Innanzitutto tra gli abitanti (insider) ed i loro luoghi ormai perduti. Aiuta gli abitanti a (ri)conoscere i luoghi, ad interpretarli, a scoprirne il Genius loci. Lo è poi, anche, tra i forestieri (outsider) e i suoi luoghi. Li aiuta a capire, a vedere, a trasformarsi da turisti in abitanti.
FARSI ABITANTE.
Il turismo è quella attività per la quale persone che starebbero meglio a casa propria vengono portate in posti che sarebbero migliori senza di loro. Così scrisse qualcuno. Non abbiamo bisogno di turisti nel significato comunemente in uso. Non abbiamo bisogno cioè di persone che vengano nei nostri luoghi come potrebbero andare da qualunque altra parte, perché nulla cambierebbe e soprattutto non cambierebbe il loro atteggiamento mentale. Noi vogliamo uomini e donne capaci di emozionarsi dinanzi ai meandri di una valle, ai salti di una cascata, alle navate di un bosco, al profilo di un monte, alle vecchie case di un borgo, ad un’aurora e ad un tramonto, ad una relazione, ad una visione. Noi vogliamo solo i predestinati. Vogliamo persone che compiano il viaggio della loro vita, vengano al Sud perché hanno “fede nel Sud” come scrive Predrag Matvejevic, perché “il Mediterraneo è un destino”.
FARSI ISTITUZIONI.
Basta con i piagnistei, con le recriminazioni, con le richieste di assistenza ed aiuto. Il destino è nelle nostre mani. Nelle mani di ciascuno di noi. Non ci interessa della politica parlata, degli annunci, delle promesse. Ci interessa del lavoro concreto che possiamo fare noi, dell’umanità e dei luoghi che ci circondano, delle necessità della gente, delle aspirazioni dei singoli, della felicità di individui e comunità. Noi non chiediamo nulla alle istituzioni. Ci facciamo istituzioni noi stessi.
AUTISMO URBANO.
Come scrive Franco Arminio, le città dovrebbero essere usate per le vacanze, i paesi per viverci. Mentre oggi è l’esatto contrario. Ma la vita che si conduce nelle città è tutt’altro che vita. Si vive stipati come sardine ma ognuno rinchiuso nella sua solitudine che non comunica. Nelle città tutto è preconfezionato, preparato, precotto. La città dà un’illusione di libertà. Ma l’unica libertà riconosciuta dallo statuto urbano è quella di omologarsi e di consumare. Per questo, sempre di più, la gente viene fatta trasferire dalle campagne nelle città: per poterla meglio controllare e regimentare. In città trovi qualunque cosa occorra, persino opinioni belle e pronte per essere condivise. Non ci si chiede di riflettere, di pensare, di decidere liberamente. Ci si chiede solo di obbedire ad ordini inespressi.
ROVINE CULTURALI
Sono i resti dell’ “apocalissi culturale” – per usare una locuzione cara ad Ernesto De Martino – che è avvenuta nel Sud Italia e in Calabria in particolare a partire dall’Unità ma ancor di più dal secondo dopoguerra. Sono il portato della “mutazione antropologica” di cui parlava Pier Paolo Pasolini nei sui scritti polemici contro la trasformazione cruenta della società italiana fra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Ma alle rovine della storia si aggiungono le “rovine” della modernità, caos urbanistico, “non finito calabro” e “neo-pittoresco calabro” (vedi voce “neo esotico di Calabria”) compresi.
DIVERSAMENTE FELICI
È la condizione di chi decide di vivere al Sud Italia e in Calabria in particolare. È incontestabile che al Sud vi sono meno servizi, che quelli esistenti sono meno performanti, che l’amministrazione della cosa pubblica è meno efficiente che altrove, che vi è minor cura per tutto ciò che è pubblico e verso i beni comuni, che ottenere la tutela dei propri diritti è più difficile. Ma chi vive al Sud, chi ha fatto questa scelta consapevolmente, chi si adatta alle condizioni ambientali e sociali, chi opera nonostante tutto, fatica il doppio di chi vive in regioni più fortunate. È tuttavia non è infelice, come la vulgata comune tende a far credere. È felice invece. Per la precisione è “diversamente felice”, esattamente come un diversamente abile è tuttavia abile: un tipo di felicità incomparabile, nel bene e nel male, con qualunque altra.
RIDUZIONISMO ONTOLOGICO O SCIENTISMO
Dietro queste parole apparentemente difficili si cela uno dei problemi più gravi del nostro tempo, ben analizzato dal Nobel per la fisiologia Konrad Lorenz nel suo “Il declino dell’uomo”: la presunzione dell’uomo per cui con il proprio genio saprà rimediare agli stessi mali che egli ha causato alla Terra ed alla stessa Umanità. Questa presunzione viene proprio dal riduzionismo ontologico secondo cui la realtà si “riduce” esclusivamente a ciò che è calcolabile, misurabile, sperimentabile, che è poi la regola fondamentale del cosiddetto “metodo scientifico”. Tutto il resto – in primis il sovrannaturale, la religione, Dio, il sacro etc. – non esiste, non è reale. Tutto questo porta a disprezzare ogni diversa “credenza” ed a definire – come fece Freud – la religione un’illusione ed una nevrosi. Mentre il premio Nobel per la fisica, Werner Heisemberg, conscio anch’egli del pericolo insito nel riduzionismo, sosteneva che le leggi della matematica non sono le leggi della natura ma sono solo le leggi che l’uomo ha per conoscere la natura. Scientismo è un sinonimo di riduzionismo ontologico ma implica l’idolatria della scienza, ossia la “credenza” che solo la scienza possa comprendere la realtà.
NEO-ESOTICO DI CALABRIA
“Esotico” è un aggettivo che si riferisce alla curiosità della gente di città per paesi lontani, poco civilizzati o comunque con paesaggi, culture, tradizioni molto diverse dalle nostre. Mentre con “neo-esotico” intendo tutto ciò che, pur contaminato dalla modernità, ha mantenuto, nella realtà o nell’immaginario collettivo, un che di diverso, di non omologato. Il neo-esotico è ciò che si può osservare, ad esempio, in una regione come la Calabria. Pur trovandosi in Europa, la Calabria è, infatti, una terra liminare, geograficamente e culturalmente isolata, che si protende, in forma di storta e nocchieruta penisola, verso il sud del Mediterraneo: come volesse staccarsi dal resto d’Italia per sfuggire alla modernità continentale. A ben bene, la Calabria annovera dentro di sé tutte le categorie più tipiche dell’esotismo: è “neo-autentica” perché, volendo, si può venire a contatto con forme di esistenza poco artefatte, come accade, ad esempio, in tanti piccoli paesi dell’interno; è “neo-selvaggia”, perché l’emigrazione ha spopolato colline e montagne, restituendole ad una natura avvolgente, incontenibile, quasi sempre con la suggestiva aggiunta di una “vista mare”; è “neo-pittoresca”, perché alle rovine della storia si aggiungono le “rovine” della modernità, caos urbanistico e “non finito calabro” compresi; è “neo-magica”, perché nell’era dell’assolutismo razionalistico, offre relitti di irrazionalità difficilmente rinvenibili nel resto d’Europa, che Ernesto De Martino descrisse così bene nei sui libri sul magismo nel Sud.