“Vi piace qui?” chiede il giovane contadino che nel silenzio del pomeriggio ancora s’attarda fra gli ulivi della Valle del Torrente Collegianni, a Cirella di Platì. “È splendido – rispondo –, una benedizione di Dio”. E lui: “Speriamo che nessuno rovini questi luoghi.” Credo di capire cosa vuol dire: “con tutto quel che sentiamo del mondo intorno a noi, bisogna augurarsi che questi luoghi appartati restino tali, che nessuno li trasformi in ciò che non sono mai stati, che restino eremi, poveri ma benedetti.” E concludo, ricambiando il suo sorriso commosso: “Che ci lascino in pace, ci lascino vivere sereni in mezzo a tanta solitudine, a tanta bellezza!”
Siamo alla fine del nostro cammino domenicale, nell’Aspromonte d’Oriente, come mi piace chiamare la lunga fascia di colline e montagne che segue dall’interno la costa ionica, dal Torbido sino all’Amendolea (e anche oltre, sino a Capo dell’Armi). In una lettera alla sorella Maria, nel 1935 dal confino a Brancaleone, Cesare Pavese aveva scritto: “La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui, una volta, la civiltà era greca. L’ospitalità è intatta, Niente è più greco di queste regioni abbandonate. Anche i colori della campagna sono greci. Rocce rosse e gialle, verdechiaro di fichidindia e agavi, rosa di leandri e gerani, a fasci dappertutto e colline spelacchiate brunoliva.” Non s’era addentrato, Pavese, sulle montagne dell’interno, dove i diafani uliveti di perdono in scure leccete, fra torrenti furiosi e rupi proterve. Non si era perso in questi labirinti infiniti, dove solo i pastori sanno seguire invisibili fili d’Arianna. Perché oltre il mare, le pianure, le colline glabre e riarse, c’è un altro Mondo.
Partiamo a piedi, al mattino presto, da Cirella. Nel piccolo bar le persone ci accolgono gentili. La loro premura è tale che si offrono di accompagnarci sino al bivio da dove parte la stradina per San Nicola. Nella luce abbacinante del mattino di marzo percorriamo la vecchia strada lastricata, sui cui fianchi, come quadri di paesaggio, si aprono uliveti e prati madidi di rugiada. Rinnoviamo l’acqua delle borracce ad una sorgiva. Attraversiamo il Torrente Collegianni e risaliamo sino alla masseria di San Nicola. Il pastore è già fuori con la murra, verso ‘u Serru. Avvertiamo il suono dei campanacci e lo scalpitio degli zoccoli. Alberi secolari ombreggiano i pendii. Attraversiamo il confine misterioso fra ciò che è dell’uomo e quel che appartiene invece alla natura, dove inizia il regno dei lecci, delle eriche, delle rocce.
I chicchi neri delle capre e i colpi d’ascia dei pastori sono i segnali della vecchia via che risale verso quelle che sulle carte sono indicate come Rocche degli Smaleditti. Il sentiero s’inerpica su un fondo pietroso. Finché non ci troviamo sulla sommità di una rupe che s’affaccia sulla valle con in basso l’alveo incassato del torrente e, di fronte, i monti Jacono e Colaciuri: un nido d’aquila a cui i locali danno il nome di Rocca di San Nicola. Al centro della rupe una strana incisione circolare – forse naturale, forse umana -, come una scodella per raccogliere la pioggia: elemento magico, lustrale, purificatorio. Aiutati dai segni proseguiamo lungo una sequenza incredibile di affacci più alti. Sino alla rupe che è chiamata Rocca de l’Accia (“ascia”). Da qui in avanti, entriamo nella terza porzione dell’Aspromonte d’Oriente, quella delle foreste di quota, dove ai lecci si aggiungono altre querce. Ci perdiamo due volte nel mistero della foresta, come sviati da uno spirito malizioso. Finalmente ritroviamo la via che porta al quarto strato della montagna, quella dei “piani” ossia ai terrazzi marini dell’area sommitale dove allignano i pini, gli abeti, i faggi: in questo caso il Piano di Alati. Appagati per questa prima esplorazione della zona e prefiggendoci di tornare, rientriamo sui nostri passi.
Ora l’Oriente è dinanzi ai miei occhi. Un oriente fatto di pianure, colline, paesi acciambellati su ambe di roccia, e il mare. Tutto risplende nella luce meridiana. Allo stazzo di San Nicola incontriamo il pastore. Conversiamo come fossimo uomini solitari che s’incontrano dopo lungo tempo. Nonostante la giovane età dimostra una saggezza che molti adulti non hanno. Come l’altro giovane, il contadino di cui ho già detto. Immagini rincuoranti in un mondo in cui l’umanità è sempre più gregaria, attratta da futilità, irresponsabile, lontana dalla realtà della natura. Gli uomini e le donne dell’Aspromonte d’Oriente non appartengono all’umanità che sbava sui media. Sono i nuovi solitari, i gelosi custodi delle parole, come scrive Gioacchino Criaco, i guardiani di una nuova consapevolezza, i portatori dell’ultima speranza.