Risalendo in autostrada la Valle del Savuto, il mondo è immerso nel buio. Oltre l’orlo dell’altopiano, il Lago Cecita, di solito splendente, ha il viso triste: senza neve, senza pioggia, a inizio febbraio. Un “viaggio al termine della notte”. Anche la Fossiata, Colle dell’Esca, Macrocioli, Longobucco e la Valle del Trionto sono ancora al di qua della “linea d’ombra”. Oltre quella però, sul lato opposto della valle, splende già la luce del Sud, limpida e disperata, povera e grata. I raggi obliqui del sole che si alza ad est, inondano la pendice di Pietra Gnizzito, la grande rupe delle fiabe locali, sotto la quale è lo stazzo di Saverio, il pastore. All’arrivo, l’anziano padre esce con le capre. Sale verso i pascoli del Monte Paleparto, cuore della Sila Greca, la Sila d’Oriente. Il suono dei campanacci è una sinfonia aurorale, un inno al sole che nasce. Come ogni giorno, da milioni di anni, nonostante noi e le nostre piccole, brevi vite che ci danno l’illusione d’essere il centro di tutto. Nello stazzo, sotto la grande rupe, restano solo tre becchi, i maschi della murra, con gli occhi furenti del dio Pan. Stanno al chiuso perché non fecondino troppo presto le loro compagne: i capretti di Natale devono nascere in novembre, dopo cinque mesi di gestazione; quelli di Pasqua sono già nelle pance delle loro mamme.
Nel laboratorio, Saverio, piegato in avanti, tiene le braccia immerse nella pentola murata, come un forno verticale. Dall’esterno un buco sotto il fondo della pentola viene saziato di legna, che arde per scaldare il latte. Il fumo svolazza dentro e fuori, cambia improvvisamente direzione, soffia sui nostri volti, come uno spirito dell’aria, capriccioso e burlone. La madre di Saverio ci conduce dalla pecora che ha appena partorito due agnellini tenerissimi. Come dimostra la placenta insanguinata ancora appesa all’utero.
Lasciamo la famiglia di Saverio al suo lavoro e con i fuoristrada risaliamo sino all’incrocio sommitale del Paleparto. Percorriamo ora, a piedi, la stradina in direzione di M. Iantrinico e, poco dopo, imbocchiamo a sinistra un sentiero che scende verso l’alta valle del Vulganera. Si apre la visuale: ad est i costoni e le gole che calano verso il Mar Ionio, a nord la punta rocciosa de La Pigolara. Giù, sempre più giù, nel fondo della valle: riattraversiamo la linea d’ombra. Il torrente è in magra. Il sentiero lo taglia fra due cascate di una decina di metri ciascuna – una poco sopra, l’altra poco sotto. Le gemelle del Vallone del Tufo hanno forgiato, modellato, lisciato il loro percorso fra travertini fragili e scivolosi, insoliti in questo regno di graniti. Le due pozze della sorella alta sono così perfettamente circolari che paiono fatte da mani umane, con delle dighe di pietre che si sono saldate col tempo. L’acqua di smeraldo lascia trasparire foglie e sassi: una limpidezza che commuove. È come se la natura ci svelasse d’improvviso i suoi sentimenti più intimi, con una resa, una fiducia sempre più rare fra gli esseri umani. Il suo incedere produce un suono lieve, come quello di mille campanelli scossi dal vento. Un fruscio più che uno scroscio. Un lamento più che un urlo. Una carezza che dal viso penetra nel profondo. Aggiriamo la cascata ed ecco i resti di antiche grotte. Qui hanno vissuto uomini con le loro famiglie, con i loro animali. Qui hanno tribolato, travagliato, sofferto, ma anche hanno goduto di gioie semplici. Se penso a Saverio ed alla sua famiglia, i cui avi, forse, furono proprio in questa remota piega fra le montagne, se penso ai loro volti intenti, ai loro sorrisi, al loro entusiasmo dinanzi a quel sole del primo mattino che sorge sulle loro vite dissipando l’ombra, dico che anche noi dobbiamo esser grati, uscire dai gusci illusori delle nostre case, dei nostri luoghi di lavoro e vivere ogni giorno come fosse l’ultimo, ogni attimo di gioia come un dono prezioso.