C’è chi parte dei paesi del Sud, chi va via, lascia il luogo della sua origine. È il gesto dell’abbandono, della fuga. “Qui non c’è niente” è la frase che egli ripete a sé stesso e agli altri, come un mantra. Anela ad una città del Nord, accudente, protettiva, mondana, che gli consenta di trovare un ruolo nella società. È “il mito urbano” degli economisti à la page, quelli che affermano: “portare lavoro e servizi nei paesi del Sud costa troppo; andateci solo per le vacanze, come turisti”. È la teoria economica di Romano Prodi e Donato Iacobucci, che pensano allo “spopolamento programmato” dei paesi dell’interno. Bisogna, insomma, scoraggiare l’abitare nei piccoli luoghi.
Beninteso, il desiderio (o la necessità) di andar via non è vigliaccheria: ognuno ha diritto di trovare un’altra patria se lo desidera. Senza rimorsi. Ma anche senza dire a chi resta: “come fai a vivere laggiù?”
C’è, infatti, chi resta. Restare ha una duplice ragione: da un lato il bisogno di sentirsi protetti dai luoghi, dall’altro quello di proteggerli; da un lato la necessità di adattarsi, dall’altro l’eresia del cambiamento; da un lato la stanzialità, dall’altro l’erranza. Non sono registri opposti ma complementari, come avverte Vito Teti da anni. Non si può restare senza avvertire i luoghi come un guscio che ci avvolge, ma nemmeno si può restare senza averne premura, compassione, amore. Non si può restare senza adattarsi agli usi e ai costumi di una comunità, ma, nello stesso tempo, non si può fare a meno di battersi per cambiare ciò che non va. Non si può restare senza credere nelle piccole patrie, ma si deve imparare anche una nuova erranza. Restare importa responsabilità, impegno, ricerca. Andiamo verso i nostri luoghi e nello stesso tempo scendiamo dentro di noi. Vaghiamo nel nostro mondo, nella nostra storia come chi va nel profondo. Per realizzare un’archeologia del cammino, venerare una memoria topografica, guarire dal rimosso territoriale, scoprire il nostro paesaggio interiore. Secondo le vie segrete tracciate dai lari e dai penati, gli dei del focolare domestico, i custodi del fuoco.
E c’è chi torna, dopo essere stato via per anni, dopo che la vita lo ha tradito. Oppure dopo un trauma. Oppure perché è stufo delle città, degli artifici, delle sicurezze, dell’omologazione, dei luoghi angusti ed affollati, delle metro, delle auto in coda, del tempo che corre inesorabile, degli orari, dei giorni tutti uguali, dei volti anodini che osservano senza sguardo. Sono quelli più fragili, ma anche i più cocciuti, i più convinti di voler vivere un’altra vita. Per questo (ri)trovano i luoghi che avevano abbandonato e che li attendono, come scrisse Cesare Pavese ne “La luna e i falò”.
E c’è, infine, chi approda. Spesso non sa neppure che il Sud esiste, se non come un menù turistico, da trangugiare in pochi giorni, per poi passare oltre e dire “l’ho visto, ci sono stato”. Ma al momento di salpare l’àncora s’immobilizza, con il verricello fra le mani. Guarda il mare con disappunto, come un provocatore. Poi gira lo sguardo sulle garighe, le macchie, i boschi che vestono i fianchi delle colline. Si chiede come mai quei luoghi non brulichino di gente indaffarata, indifferente, perché si riesca a vedere il cielo, perché l’orizzonte sia sempre al suo posto e ad ogni alba, ad ogni tramonto si colori, perché il vento gli porti il profumo del mirto. E le mani allentano la presa, la catena si scioglie, l’àncora scorre di nuovo verso il fondo. Prendono tempo. Sanno che dentro di loro sta accadendo qualcosa. C’è un tarlo che li rode: la voglia di buttare tutto all’aria: lavoro, sicurezze, ordine. Ed è così che, un giorno, s’accorgono che quell’approdo è l’ultimo.
Vivere quaggiù, in un piccolo paese del Sud, è una scelta radicale. Abitare qui è come errare. Chi resta, chi ritorna, chi approda, non è alla fine del cammino ma all’inizio.