Sono una nuvola. Sguscio dall’utero di mia madre, in cielo. Scivolo sulle creste dirupate. Avvolgo in un abbraccio Cozzo del Pellegrino. Accarezzo le rupi, preziose di faggi, aceri, pini loricati. Sorvolo gli strapiombi di Boccademone, come un’aquila. Penetro nelle grotte fra le rocce, cieco, stupito. Sfioro con le labbra le fronde degli alberi. Plano sui prati di Schiena La Sepa. Striscio sulle fronde della foresta di Schiena di Novacco. Mi espando e mi dissolvo, come un respiro. Sino a tornare da chi mi partorì: nella mia fine, nella mia origine.
Siamo giunti quassù percorrendo uno dei più vecchi sentieri che conobbi dell’Orsomarso. La prima domenica successiva alla fine della parte ricca e caotica dell’estate. Il tempo ci regala un vento fresco e liberatorio. Partiti da sopra Verbicaro, sfilando fra Schiena dello Zigrino e Timpone del Vaccaro, valicando Bocca del Monte, seguendo il fondo di Sammacosa e, prima di salire fin dove siamo ora, sporgendoci dalle aeree Rupi di Lanzicello. Con il cielo di zaffiro cosparso di bianche ciglia. Con il Tirreno, ad ovest, tornato allo splendore solitario delle stagioni povere e alle loro mille tenerezze. Poi, abbiamo riattraversato la vecchia stradina. E siamo saliti lungo Canale del Sardo. Per completare l’anello iniziato, ma non concluso, appena una settimana fa.
Sono qui, su questo miracolo di sguardi, che la foresta avrebbe potuto riprendersi e invece ha risparmiato. Vago fra i prati, gli alberi colossali, gli inghiottitoi che bucano il ventre della terra. Intimorito, dinanzi alle gigantesche pietraie che precipitano dalle cime dei monti sino al fondovalle. È il mio ritorno a casa. Nulla mi emoziona di più che essere fra le braccia delle montagne.
Un viaggiatore, una volta, volle visitare la casa di William Wordsworth (1770/1850), il grande poeta britannico, nel Lake District, nel nord del Cumberland. Wordsworth era solito fare lunghe passeggiate quotidiane per monti e valli (pare abbia percorso più di 300.000 chilometri nella sua vita), innamorato della natura, cui, come tutti i grandi romantici, sapeva di appartenere, corpo e anima. Quel giorno, tanto per cambiare, era in cammino. Il viaggiatore chiese alla domestica di mostrargli lo studio del poeta. Quella rispose: “prego, questa è la biblioteca. Ma lo studio è là fuori, oltre la porta”. Come Wordsworth, non so scrivere se prima non metto distanza fra me e la civiltà. La natura, per me, è libertà e verità. Amo vagare senza meta, immergermi nella vita. In montagna, dove è meno evidente la brutalità umana, mi ri-trovo, mi ri-conosco, mi sento appagato, in pace.
Nell’incipit del poema in versi “Prelude” (che è anche un’autobiografia), Wordsworth pare aver letto nel cuore ciò che provo ora, quassù: “È una benedizione questa lieve brezza / che soffia dai campi verdi e dalle nuvole / […] Benvenuta messaggera, benvenuta amica, / ti saluta un prigioniero che esce da una casa / servile, affrancato dalle mura di codesta città / […] Ora sono libero, emancipato, all’aria aperta, / posso prendere casa dove mi piace / […] Dove mi volgerò? / Strada, sentiero, campo aperto, / o sarà un ramoscello o altro oggetto portato / dalla corrente a indicarmi la strada?”
Qui, fra le montagne di Verbicaro, dove quasi tutti vanno per utilità, io invece mi sperdo, inutilmente, come un bimbo ingenuo (da “ingenuus”, “nato libero”). Qui lego i miei giorni come la trama e l’ordito. Qui compongo l’arduo mosaico di me stesso. Qui cerco la strada che porta a casa.