Fruscio del vento. Frinire dei grilli. La luce abbacinante del mezzogiorno, l’ora panica, la controra, in cui si può essere posseduti dai demoni dell’aria e colti da follia. Monti e foreste a perdita d’occhio. Pochi villaggi, ai margini di prati dorati. La cima, aperta sotto il cielo, squaderna un Mondo nel mondo, immenso, sconfinato. Dinanzi a questo affresco infinito comprendo che non c’è genio umano che possa eguagliare lo spirito della Terra, non c’è creazione umana che possa somigliare a quella della Natura. Né vi sono parole così forti, grandi, significanti per descrivere ciò che i nostri occhi ora vedono. Dopo tre ore e mezza di cammino, alla ricerca di una via, di un luogo che divenga, per pochi attimi, il cuore incandescente del nostro universo interiore.
Inauguro oggi, ultima domenica di luglio, il mio periodo di letargo creativo. O, se volete, quel tentativo di estraneazione dagli strepiti umani che vagheggio come una forma di clausura. E lo faccio con un cammino inedito: salire sul Montenero, 1880 metri, seconda cima per altezza della Sila per una via completamente nuova, a partire dalle rovine di Torre Petrone, sulla sponda nord del Lago Ampollino. Partiamo dal vecchio stazzo abbandonato, al di sopra della strada. Oggi siamo solo in quattro: tutti membri dell’Ordine Pedestre dei Camminatori Erranti. Possiamo concentrarci sulla solitudine, sul silenzio, sulla contemplazione.
L’anziano signore incontrato ad una delle casette contadine sull’altro lato della strada tenta di dissuaderci: “il Montenero è lontano da qui”, “col fuoristrada dovete salire”, “troverete solo boschi”. Al ritorno ci dirà che se avessimo tardato ancora avrebbe chiamato i soccorsi. “Perché qui ci si può perdere” esclama con un velo di paura negli occhi. Non glielo dico, ma è esattamente quel che volevo fare: sperdermi. A me stesso, agli altri, al mondo che non capisce questo Mondo.
I primi pascoli bassi, ormai secchi, scricchiolano sotto i nostri piedi. Entriamo presto in un sontuoso bosco di pini. Pare facesse parte di uno dei latifondi silani, quello della famiglia Zurlo. Benché il bosco non sia vecchio, intuisco che non si tratta del solito rimboschimento. È ricresciuto spontaneamente, forse dall’ultimo dopoguerra. Un ruscello scorre prezioso alla nostra sinistra. Dedalo di stradine. Ci orientiamo sulla macchia ininterrotta di foreste che si estende sulla mia vecchia cartina spiegazzata. Cercando le cime più vicine a noi: Timpone del Petrone (ad ovest), Colle della Giumenta (ad est). Il bosco ci ha inghiottiti: siamo alberi regrediti allo stato mobile, quando non c’era distinzione fra uomini, piante, animali, ruscelli. Quando le radici erano piedi. Quando i rami erano braccia. Quando la linfa era sangue.
Giungiamo al crinale, percorso dalla recinzione che segna il confine fra i due versanti della dorsale. Piste poco battute corrono nell’ombra della foresta. È una cattedrale, le cui navate si estendono in ogni direzione. E noi siamo fedeli che pregano senza parole, intonano un muto salmodiare ad ogni passo. Entriamo nella quota in cui l’ombra subisce la luce. Il sole penetra tra le fronde. E nei quadri illuminati del paesaggio si aprono piccoli squarci lontani di piantagioni, fiumi, laghi che riflettono il cielo. Per decine di chilometri intorno a noi è il regno assoluto della Natura. Il regno dell’imponderabile, dell’imprevedibile, dell’inesprimibile. Ecco perché l’anziano contadino temeva per noi, stamane. Egli sa che qui può accadere qualunque cosa.
I primi suoni dei campanacci annunciano i pascoli di quota. Il bosco si dirada. Appaiono le podoliche con i vitelli. Ci osservano guardinghe. Senza punti di riferimento certi, non conosciamo la nostra posizione. Solo perdendosi si può cercare la via. Decidiamo di salire lungo la linea di massima pendenza. Riemergiamo dal bosco su una pendice fluttuante di esili steli d’oro. Finalmente una veduta: lontano, a nord-est, si riconoscono le gialle colline della bassa val di Neto, cui scenderanno le mandrie in autunno. Riprendiamo a salire. Sino a che non giungiamo in luoghi a me noti: gli spazi assolati dell’area sommitale. A sinistra il Vallone di Montenero e più in là la cresta di Colli Perilli. Ed eccoci al belvedere dell’anticima, con montagne dietro montagne, sino al lontano Pollino. E foreste dietro foreste. E nuvole dietro nuvole: bianche navi che solcano il cielo e, nello stesso tempo, fluttuano dentro me. “[…] Il mondo fisico si riflette, vivo e vero, nel nostro più intimo e profondo sentimento – scrive l’esploratore Alexander Von Humboldt – […] Ciò che caratterizza un paesaggio […] è in un’antica, misteriosa relazione con la vita interiore dell’uomo”. La Sila si è ripresa la sua anima, io ho riavuto la mia.