Quando la Terra parla all’uomo

Dacché, settantamila anni fa, i sapiens crearono il linguaggio (la cosiddetta “rivoluzione cognitiva”), essi credono di essere le uniche creature capaci di parlare, comunicare, raccontare favole. Non è proprio così. La Terra stessa – che è anch’essa “un essere vivente dotato d’anima e d’intelligenza”, come scrisse Platone nel Timeo – manda messaggi di continuo. Ultimamente, la Terra prova a dire qualcosa agli uomini. Io, che non sono affatto orgoglioso di appartenere al genere umano, penso che si tratti di un messaggio urgente e grave, rivolto non solo agli uomini comuni, ma principalmente agli scienziati ed ai loro finanziatori, i potenti.

Le calamità naturali sono sempre esistite. La Terra non conosce la matematica e la statistica, che sono semplici sistemi ideati dall’uomo per misurare i fenomeni naturali. La Terra è lì da miliardi di anni. Non ragiona in termini di minuti, ore, giorni. La Terra fa ciò che deve fare, e si prende tutto il tempo che le occorre. Quel suo fare, quel suo evolversi, quel suo favorire le condizioni per la vita, ha consentito ai sapiens di passare da uomini a dei, come titola enfaticamente un famoso libro di Yuval Noah Harari. Senza dimenticare che qualche migliaio di anni fa un famoso testo religioso, la Bibbia, affermò che solo l’uomo – non la Terra, la natura, il cosmo – è stato creato a immagine e somiglianza di Dio.

La Terra ha a lungo tollerato che l’uomo si appropriasse delle sue risorse, suoli, materie prime, acque, aria, animali, piante, che rompesse, inquinasse, distruggesse. La Terra non ha a cuore il destino dei singoli esseri viventi. Il suo compito è preservare la vita nel suo insieme. Ella governa la vita secondo “necessità” (che i greci chiamavano “ananke”): accada ciò che deve accadere. Per parafrasare Pascal, potremmo dire che la Terra ha le sue ragioni che la ragione umana non conosce. Così, la Terra, troppo presa da questo suo compito, s’è distratta per un paio di secoli, lasciando mano libera ai sapiens. Alla fine però, si è svegliata ed ha compreso che stanno esagerando con le favole: il denaro, la proprietà privata, il mercato, l’energia, le armi, i farmaci, l’innovazione, la competizione, la tecnica. Ed ha pensato bene di mandarci qualche avvertimento attraverso quelle che noi uomini chiamiamo “catastrofi”.

Le “catastrofi”, etimologicamente, sono “cose che non dovrebbero accadere”, “capovolgimenti” del corso naturale delle cose. Ecco gli inganni del linguaggio umano: accade un’alluvione, ad esempio, e ci meravigliamo che in una data zona, in poche ore sia caduta tanta pioggia quanta ne cade solitamente in un anno. Applichiamo i nostri numeri, le nostre statistiche alla Terra, che quei metodi non conosce. Tant’è che perfino nella Bibbia vi è il ricordo ancestrale di una immane alluvione, “il diluvio universale” dal quale l’uomo si salvò costruendo l’arca, ossia “adattandosi”, non certo pretendendo di dettare regole alla natura.

Noi moderni sapiens no. Noi crediamo che attraverso la scienza e la tecnica possiamo addomesticare la natura, come abbiamo fatto per secoli con gli animali, le piante, i suoli, l’aria, le acque. E così ci accapigliamo sui dati, polemizziamo sulle soluzioni tecniche alle catastrofi. Pretendiamo, con un paradosso, che con nuove forme della tecnica si possa ovviare ai danni prodotti dalla tecnica, ossia dal potere sovrabbondante dei sapiens nel voler rendere la natura sempre più artefatta. Sino a sostituire ciò che è naturale con macchine che sappiano fare le cose della natura più rapidamente e senza errori.

Ma la parola “catastrofe”, se leggiamo i dizionari, con i quali gli uomini cercano di spiegare ai loro simili (non certo alla Terra) il linguaggio, ha anche un altro significato. Vuol dire “rivolgimento”. Che implica anche un rivoltarsi, un ribellarsi, un contrastare la prepotenza di qualcuno. Nel nostro caso chi si ribella è la Terra e quel qualcuno è il genere umano. Non sono stato io il primo a pensarlo. Prima di me lo ha fatto, ad esempio, il premio Nobel per la medicina nel 1973 Konrad Lorenz, il quale, in una intervista del 1989, poco prima di morire, pubblicata in Italia su “La nuova ecologia”, rispondendo ad una domanda sul comportamento distruttivo dei sapiens sulla Terra affermava: “la nostra sola speranza sta nel fatto che una catastrofe, limitata ma veramente radicale, stermini una parte dell’umanità per fare aprire gli occhi ai sopravvissuti”. E più avanti, riferendosi al disastro della centrale nucleare di Cernobyl, del 1986 in Unione Sovietica, aggiungeva: “Sì, quel disastro è stato troppo piccolo. Dovrebbe accadere un disastro ad un’intera città come New York o San Francisco. Ma tale da non danneggiare troppo il resto dell’umanità.”

Parole profetiche. Che sembrano attagliarsi alle apocalittiche alluvioni degli ultimi tempi. Che i climatologi attribuiscono ai cambiamenti climatici, pensando che si possano evitare immettendo meno gas serra in atmosfera. Ma che a me paiono, piuttosto, avvertimenti della Terra agli uomini per farli desistere dal “crescere e moltiplicarsi”, dal “riempire la terra”, dal “dominare sugli animali e i pesci e gli uccelli” e, in definitiva, per mettere un limite alla loro smisurata volontà di potenza.

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