Con l’età adulta ho disimparato ad andare a cinema. Sì, da giovane quando nella mia città ce n’erano ben tre, ed a Firenze, dove studiavo, vedevo spesso film drammatici di cui conservavo perfino i biglietti come reliquie. Poi, quando tornai in Calabria ne feci a meno: ci sono tante cose, nella vita, delle quali fare a meno; si sacrificano perché se ne compiano altre. La vita non basta mai per tutto. E se tenti di infilarci troppo diventa un bazar disordinato, affannoso, sciatto, bulimico.
Recentemente, però, ho interrotto la mia astinenza cinematografica, per vedere il film di Sorrentino Parthenope. Per il desiderio suscitatomi dai pareri contrastanti, commossi o acrimoniosi, che leggevo sul suo conto. Un sabato pomeriggio mi sono infilato in una di quelle sale ipermoderne di un centro commerciale sempre abborrito. Volevo capire, come sospettavo, se il film fosse davvero nelle mie corde.
Parthenope non è un’opera per iper-razionali o neo-illuministi. È solo per persone nelle quali predomina l’intelligenza emotiva, passionali, che sanno sorridere ma con anche una vena di malinconia. Chi è del secondo tipo vada a vederlo: potrebbe anche piangere di gioia, o di tristezza. Ma gli altri no: vi annoiereste. Non troverete, infatti, alcuna rivelazione scientifica, alcuna utilità pratica nelle lacrime della protagonista, in quella sua vena centrale della fronte, lievemente gonfia quando ella si commuove; nel suicidio del fratello di Parthenope; nel figlio mostruoso del professore; nella scena in cui le famiglie dei due clan assistono, come in un teatro, all’amplesso dei due rampolli che segneranno l’alleanza; nell’invettiva dell’attrice famosa contro i napoletani; nella scena in cui Parthenope, il fidanzato ed il fratello della protagonista ballano accarezzandosi sulle note della canzone di Cocciante, che per me è il nucleo incandescente della storia.
Il problema è che Napoli e il Sud non sono per gente del primo tipo. E Parthenope è Napoli e il Sud per come li vede Sorrentino. Che, a differenza di molti critici cinematografici, anche quando parla non ha alcuna intenzione di fare sfoggio di erudizione, sa essere umile, empatico, simpatico e nello stesso tempo riservato, pur conoscendo il suo valore, la sua originalità. Ed io giudico un artista solo dopo che sento parlare l’uomo che è in lui.
Il problema è anche che i temi del film tratti da quel mondo irripetibile che è Napoli, l’erotismo, la seduttività, lo squallore, l’inconscio, il mito, i riti, la meraviglia, la tristezza di invecchiare, il rimpianto, sono solo per chi aborrisce la matematica.
L’arte non è scientifica e non è utile. È irrazionale ed inutile. Come tutte le cose seduttive, ammalianti, inquietanti della vita. Ma ha qualcosa che una parte di noi non vedrà mai: ha lo sguardo sulla realtà che quasi sempre è più acuto, più autentico, più profondo di qualunque freddo dato, di qualunque statistica. E Pathenope è arte pura, distillata da un mondo decadente ma vivo che può non piacere ma che vive nel cuore di quella parte dell’umanità che ribolle del magma vulcanico che ogni vero, grande Sud, che ogni “terra dei prodigi naturali”, secondo la definizione Alberto Savinio, possiede come un dono degli dei per terrorizzare ed affascinare gli uomini.