Paolo Cognetti e la frottola della bella vita in montagna

Paolo Cognetti, il narratore italiano divenuto famoso con il libro “Le otto montagne” pubblicato da Einaudi nel 2016 e vincitore del Premio Strega, ha rilasciato il 19 dicembre a “la Repubblica” una lunga intervista dove si racconta dopo la depressione ed il ricovero in un reparto di psichiatria di un ospedale milanese. Il successivo 21, il giornale on line “L’altra montagna” ha pubblicato un’ulteriore intervista nella quale lo scrittore rivela che la notizia secondo cui egli avrebbe lasciato la vita cittadina per andare a vivere in una baita in alta montagna, che fece schizzare le vendite di quel primo libro, era falsa, creata ad arte dai pubblicitari della casa editrice, con il suo silenzio complice.

All’epoca anch’io comprai il libro ma non riuscii a leggerlo. Fin dalle prime pagine avvertii che c’era qualcosa di artefatto, una sorta di auto-compiacimento poco credibile sulla montagna che salva, in una chiave sostanzialmente anti-cittadina. Ho sempre amato andare in montagna e quel mondo mi affascina. Non solo per la bellezza, la solitudine, il silenzio, il contatto profondo con la natura, ma anche per certi modi di vivere della gente nei piccoli paesi, per il coraggio di stare lontano dalle lusinghe delle folle, dall’illusione di essere al centro del mondo, dalla sicurezza di aver tutto a portata di mano. Ciò non di meno, non ho mai idealizzato l’umanità delle montagne e dei piccoli paesi, ben conoscendone i limiti.

Penso che chi vive volontariamente in montagna o nei paesi abbia fatto una scelta radicale, che implica un certo grado di clausura, che io definisco “sanamente relazionale”, che bada più alla qualità delle relazioni che alla quantità. Nella realtà della Calabria – al 91% fatta di montagne (ovviamente non tanto alte come quelle delle Alpi) e di aree interne poco popolate), ho conosciuto tante persone che “restano”, per usare una parola cara a Vito Teti, accettano i disagi, si prendono cura dei luoghi, conducono vite da “nuovi eremiti”, pur non chiudendo fuori il mondo come i veri solitari, gli asceti. Molte di queste persone si battono perché i territori non vengano devastati, rianimano le comunità, accolgono visitatori, considerano le cose belle e buone della montagna superiori ai disagi ed alle “ombre” – per usare un termine junghiano – che questo tipo di vita riserva, soprattutto in una regione povera, arretrata, disamministrata e malfamata, come la Calabria.

Ma torniamo a Cognetti ed alla sua (s)confessione, al suo coming out. Mi domando, leggendo le sue affermazioni, se dobbiamo credergli davvero quando ristabilisce la sua verità e cioè che la città è meglio della montagna per viverci e per avere relazioni sane. Già, perché già nel 2016 gli credemmo quando diceva l’esatto contrario. Sennonché, i social, sempre spietati, grazie agli incastri degli algoritmi, hanno subito fornito risposta al mio interrogativo. Poco dopo aver avuto, dagli stessi social, notizia delle due interviste citate, mi è infatti comparsa un’altra notizia: Cognetti ha recentemente realizzato un docufilm sul Monte Rosa, dal titolo “Fiore mio”. Il dubbio sorge spontaneo: se all’epoca de “Le otto montagne” qualcuno inventò la bugia dello scrittore che fugge dalla città per andare a vivere in una baita isolata per accendere i riflettori sul libro, non è che la odierna pubblica (s)confessione è strumentale a creare curiosità sul docufilm?

A me pare che Cognetti dica cose di una ingenua (ma non troppo) ovvietà. Aborrendo da ogni retorica, a me pare che in montagna e nei piccoli paesi dell’interno vivano sia persone “diversamente felici” – che, come ho detto, hanno fatto una scelta di vita – sia persone che vorrebbero fuggir via. Quello che un po’ mi indigna, invece, è che, dinanzi ad un’operazione pubblicitaria così smaccata (fatta con scarso rispetto verso i lettori), i grandi giornali, ma anche le riviste specializzate, diano ancora credito alle elucubrazioni di Cognetti. Insomma, quantomeno ci si dovrebbe chiedere se questi era più “bugiardo” (o quantomeno consenziente alla trovata dei pubblicitari) all’epoca della frottola sulla sua scelta di divenire montanaro in occasione della pubblicazione de “Le otto montagne”, oppure ora che, guarda caso, è appena uscito il docufilm. Senza nulla togliere ai meriti della sua narrativa, e con tutta la comprensione per la sua autodichiarata sofferenza psichica, mi domando perché mai critici e giornalisti vogliano far passare (sia prima che ora) l’esperienza personale di un artista come Cognetti per una ricerca sociologica, che allora voleva spiegarci quanto è salvifica la vita in montagna ed ora, invece, quanto essa può fare ammalare. Quando invece, comportamenti di questo tipo andrebbero stigmatizzati come si fa per qualunque altro prodotto sostenuto da una pubblicità ingannevole.

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