Sulla morbida terra una prateria di fiori viola. Cardamine battagliae è il nome scientifico della pianta. Prezioso endemismo botanico calabro, che ogni anno, di questi tempi, anticipa qui la sua pasqua di resurrezione. Fanno da sfondo oscure rupi. Ciascuna con un proprio nome: Timpa di Manca, Timpa di Simia, Timpa delle Fate, Timpa Pizzuta. E sotto di esse, un dedalo di massi e faggi ammantati di muschi, felci, licheni. Un suono lieve di fronde nell’aria. La nebbia ci avvolge, conferendo al luogo un’atmosfera fiabesca.
Appena ieri vi erano un’afa ed una luce innaturali. Come un presagio di catastrofe. Erano scoppiati incendi dappertutto, alimentati dallo scirocco e dalla stupidità umana. Siamo venuti quassù certi che fosse giunta, precocissima, l’estate. E invece, è un giorno di gelo e d’ombra. Con vento da nord e folate di pioggia diaccia. Racchiusi nelle dotazioni supplementari dei nostri zaini, camminiamo, rapiti dall’atmosfera brumosa che ci avvolge.
È il tempo che piace alle salamandre pezzate, che oggi sbucano dovunque. Con i loro corpicini sinuosi, i colori gialli e neri, quell’aria paciosa e da carpe diem che tanto mi piacerebbe adottare anch’io. Escono dai nascondigli nella terra per godersi l’inattesa umidità, gironzolare lente fra stagni, ruscelli e sulla lettiera di foglie in cerca di lombrichi e di piccoli insetti. È il tempo in cui i grandi faggi si mostrano in tutta la loro imponenza. In una località che porta il loro nome (“I Faghi”) ci siamo fermati a lungo per salutare uno di loro, che pare un titano uscito da antico mito, nascosto in una piega di monte che guarda il mare del Golfo di Sant’Eufemia. Durante un grave incendio, qualche anno fa, le fiamme, provenienti dalle intricate macchie a valle risalirono furenti sino ai faggi, ma giunte poco sotto il nostro amico, inspiegabilmente si aprirono a “Y”, risparmiandolo.
Poi, abbiamo ripreso il cammino verso ovest, in un’umida faggeta ancora in livrea invernale. Entrando e uscendo da vallette dove scorrono limpidi ruscelli. E siamo giunti all’ormai diruto ostello della gioventù, che qualche sagace amministratore costruì in questo luogo isolato per abbandonarlo a sé stesso. E poi ancora nella parte più monumentale della faggeta, sino a fermarci, incantati, nella preteria di cardamine, sotto le rupi.
Ci sono luoghi che entrano nel cuore. E lì albergano, silenziosi, per sempre. Come amici saggi, che ti vogliono bene, si prendono cura di te. Luoghi che non ti stanchi mai di visitare. Luoghi che, come dice James Hillman, “richiedono molto tempo e ripetuti incontri” per scoprirne l’anima. Sono luoghi rifugio, luoghi casa, luoghi universo-mondo, luoghi che guariscono. C’è chi non annette ad alcun luogo simili capacità. C’è chi, invece, quei luoghi li ha nel cuore. Forse solo perché è vecchio. O perché ha vissuto, in gioventù, l’ultimo tempo degli ideali di questo mondo che pare giunto alla fine del mondo.
Ora giriamo intorno alla montagna, a lungo. Voglio provarmi, dopo mesi di problemi muscolari quasi inspiegabili, se non in connessione alla mia psiche. Saverio ed io siamo soli. Camminiamo come due monaci di clausura durante lo “spaziamento”: a tratti discorriamo; a tratti stiamo distanziati, assorti; a tratti il fruscio dei passi è il salmodiare di una preghiera. Un piccolo rifugio ci attende, odoroso di fumo, come un romitaggio immerso nella foresta. Desiniamo e riposiamo. Per affrontare la seconda parte del lungo percorso attorno a quel mondo sovrumano, oltreumano. Poi di nuovo in cammino salendo per campagne abbandonate, boschi, ruscelli, sotto una pioggerella fine, sonante. E la sommità di una rupe che domina una valle avvolta di nubi. E poi ancora nella faggeta, fra i nostri titani, fino a tornare sull’aereo trespolo di roccia da cui oltre le brume avvolgenti, si intravede il mare. Mi risuonano nella mente le parole di Thomas Eliot: “Non cesseremo mai d’esplorare e alla fine di tutto il nostro esplorare arriveremo al punto di partenza e conosceremo quel luogo per la prima volta.”