Crediamo di poter guarire qualunque malattia, sanare le distruzioni della guerra, rimediare alle catastrofi che noi stessi produciamo. È il senso di quanto sta accadendo: vecchie e nuove malattie, conflitti, disastri naturali causati da comportamenti umani sconsiderati. Come le epidemie da zoonosi, i tumori da cause ambientali, le emergenze umanitarie, le alluvioni. Lezioni che ci vengono dalla Terra, ma da cui non impariamo nulla. Tutt’altro. L’uomo dice: “come ho rotto, così riuscirò riparare”. La Natura, l’Umanità sono l’immenso laboratorio del nostro delirio riduzionista: la pretesa cioè di ridurre la realtà solo a ciò che è nostra scienza, nostro metodo. Che però non sono la scienza e il metodo della Natura, ossia della totalità della vita. In altre parole, l’uomo scambia la propria sapienza con la sapienza della Terra, delle montagne, dei fiumi, degli oceani, dei venti, delle nuvole, dei virus, degli animali e perfino di tutto ciò che non è percepibile con i nostri sensi.
Qualcuno lo aveva capito già secoli fa, quando scienza e tecnica erano ancora deboli. “Physis kriptesthai philei”, avvertiva il filosofo Eraclito di Efeso (535 a.C./475/ a.C.): “la vera natura delle cose è inconoscibile (per l’uomo)”, secondo la traduzione dell’accademico di Francia Pierre Hadot (1922/2010). “Io imparo dalle formiche, dalle mosche e da tutte le minutezze naturali sempre qualche cosa … e aborrisco l’imparar dagli uomini” diceva un folle filosofo calabrese, Tommaso Campanella (1568/1639). La Natura è un libro, insomma, che ci offre continui insegnamenti, che noi puntualmente ignoriamo, così da pretendere di modificarla a nostro piacimento. Ma gli uomini – non tutti per fortuna – sono invasati di superbia: credono di sapere più della Natura, vogliono carpirne i segreti, addomesticarla, piegarla ai propri fini. Come disse lucidamente Ungaretti rispondendo ad una intervista di Pasolini: “la civiltà è un atto contro natura”, intendendo che il primo scopo della cultura di una comunità umana è inevitabilmente sopraffare la Natura.
Così il mondo si avvia alla fase cruciale di quello che il Nobel per la chimica Paul Crutzen (1933/2021) denominò, nel 2000, “Antropocene”, l’ipotetica, nuova era geologica che vede al centro di tutto l’uomo (antropos), con la sua idea di sostituire la propria sapienza alla sapienza della Natura. Ed è in questo tempo di follia specista (l’idea secondo la quale lo spirito dell’uomo è superiore a quello di qualunque altra specie) che nascono gli illusionisti della scienza. C’è chi crede che per fermare epidemie e malattie si possa intervenire sul genoma (il cosiddetto editing del codice genetico di qualunque essere vivente), anziché smettere di distribuire sostanze tossiche nei cibi, nell’aria, nell’acqua e di giochicchiare con i patogeni per scopi spesso poco nobili. C’è chi ritiene che per far cessare le guerre si debbano aumentare gli armamenti, piuttosto che impegnarsi a rimuovere le cause dei conflitti. E c’è chi pensa che si possano imbrigliare le acque dei fiumi, trattenere le montagne, inseminare le nubi per far piovere, piuttosto che evitare di inquinare impunemente, di costruire dove i corsi d’acqua esondano da secoli, aver rispetto dell’immane forza tracimante delle acque. Scienza e tecnica sono utili. L’atto contro natura della civiltà di cui parlava Ungaretti non va demonizzato. Ma occorre capire che ci sono limiti invalicabili, che vi è una misura a tutto. Bisogna comprendere che le lezioni che ci impartisce la natura vanno comprese ed ascoltate.