So bene che quanto scriverò qui potrà rendere perplessi quei lettori che sono abituati a leggere i miei articoli in lode alle bellezze della natura e della cultura del Sud. Ma correrò il rischio del biasimo, provando a spiegare – con la sintesi e l’approssimazione necessarie ad un articolo – le ragioni per le quali, a mio parere, dobbiamo sforzarci a racchiudere fra quelle bellezze anche pratiche che all’apparenza non sembrerebbero tali. Ogni anno, durante la Settimana Santa, si ripropone, infatti, in Calabria, nell’opinione pubblica, lo scontro fra un sentimento di ribrezzo, da un lato, ed uno di suggestione verso i riti di flagellazione di Nocera Terinese e Verbicaro. Al centro dei quali vi è l’effusione di sangue dalle gambe dei “vattienti”.
Il carattere antimoderno di questa tradizione, un tempo più diffusa, poi decaduta e infine riplasmata, come spiega Franco Ferlaino in un suo famoso libro dedicato a questi riti, grazie al clamore mediatico, è evidente. Riti di questo tipo tendono a ristabilire o quantomeno a ricordare antichi ordini culturali locali demoliti dalla modernità, la cui cifra è, per l’appunto, l’omologazione. Nei piccoli paesi che hanno pagato l’avvento della modernità in termini di spopolamento e di marginalizzazione, dacché erano centri vitali della storia, della tradizione e perfino dell’economia agricola, la persistenza dei riti rappresenta una sorta di ribellione a questi processi distruttivi.
Ciò posto, viene da chiedersi: “perché il sangue?”, “qual è oggi il senso della flagellazione cruenta?” A queste domande si risponde sottraendo i riti alla pura e semplice apparenza e scavando nella loro simbologia profonda. So bene che nelle intenzioni coscienti dei protagonisti della flagellazione, il gesto di battersi ha ormai solo un significato penitenziale legato alla passione di Cristo, anch’essa cruenta, come hanno sottolineato, con dovizia di scene sanguinolente, recenti ricostruzioni filmiche come quella di Mel Gibson. E so anche che i riferimenti storici di questi riti si fermano a pratiche di flagellazione del tardo medioevo cristiano. Ma la simbologia del sangue è complessivamente più antica e, soprattutto ha connotati tutt’altro che negativi. Chi si batte, oltre all’aspetto di penitenza personale (il sacrificio di sé stessi) di cui ho detto, con la precisa sequenza dei suoi gesti vuole che lo spargimento di sangue abbia un effetto beneaugurante e propiziatorio.
Tralasciando, per brevità, i riferimenti più antichi (ad esempio il mito precristiano di Attis e Cibele), il sangue è da tempo immemore “il sugo della vita” come titola un libro di Piero Camporesi, ossia simbolo di rigenerazione e di vita (ovviamente mai scisso dal suo contrario, la morte, che della vita è tuttavia parte integrante, in quanto evento finale ineluttabile). Il significato di tutto ciò è chiaramente espresso da Luigi Lombardi Satriani e da Mariano Meligrana in uno dei testi cardine dell’antropologia contemporanea, “Il ponte di S. Giacomo”: “Questi riti, lungi dall’essere operazioni di morte – neanche nel senso, pur apparente, di morti-ficazione -, articolano sul piano simbolico il linguaggio della vita, la sua fondazione, la sua rifondazione in un orizzonte protetto [il rito, appunto]. La mortificazione svela qui il suo aspetto di finzione rituale, per cui ci si rende simili ai morti, si muore (ma fino a un certo punto) per poter essere di nuovo compiutamente vivi. La vita più salda è quella che è discesa agli inferi e ha sgominato la morte, come ricorda la vicenda paradigmatica di Cristo”. E questo concetto si ricollega esattamente alla Pasqua come festa cristiana della resurrezione sovrappostasi alle antiche feste primaverili di rigenerazione agraria: l’attesa della rinascita delle piante edibili come il grano, la vite e l’ulivo, ma anche della vegetazione nel suo insieme, dopo il lungo periodo del “lutto invernale” come spiega Ernesto De Martino. Di questi temi ci restano amplissime testimonianze in un altro famoso testo di riferimento, “Il ramo d’oro” di James Frazer.
Il sangue che si effonde, in modo così plateale e per qualcuno anche brutale, dalle gambe dei flagellanti è anche e soprattutto simbolo di forza, rigenerazione, vita e, possiamo sostenere, di “dono” di sé ai parenti, agli amici, alla comunità cui si appartiene. In segno di persistenza e perpetuazione di legami, afflati, identità che la modernità omologante tende inesorabilmente ad obliterare.