Lo confesso: mi sono iscritto all’ “ordine dei brunoriani”; che non c’entra nulla con la Certosa di Serra e con S. Bruno di Colonia. Essendo ancora un novizio, giro sul web alla ricerca di canzoni, testi, interviste di Brunori s.a.s. E scopro tante cose interessanti che mi inducono, oggi, a tornare su di lui, col rischio – lo ammetto – di inflazionare ancor di più quello che è divenuto, almeno in Calabria, un vero e proprio (s)oggetto del desiderio. Non parlerò della sua musica (sebbene l’apprezzi molto) né del suo successo sanremese (aveva ricevuto riconoscimenti ben più prestigiosi, fra cui due Targhe Tenco ed un Nastro d’Argento). M’interessa molto, invece, la sua “restanza” in Calabria (tutta la mia vita mi sono battuto per questo). Per capire come una terra così vituperata abbia prodotto un artista di valore, simpatia, umanità e mitezza, in un’epoca in cui aleggiano ovunque, invece, cloni e feticci umani, algoritmi biologici direbbe il futurologo Yuval Noah Harari, avatar, robot e intelligenze (se non anche deficienze) artificiali.
Restanza (parola coniata dall’antropologo Vito Teti) per me (che usavo, come suo sinonimo, “stanzialità errante”) è una forma di ribellione al “provincialismo del cosmopolitismo” (come avrebbe detto, con un ossimoro, l’antropologo e storico delle religioni Ernesto De Martino, che, fra l’altro, studiò e documentò il magismo nel Sud negli anni del dopoguerra: avete presente le cose che racconta Brunori su magare e riti di sfascinazione?). Ma è anche una specie di antidoto contro l’omologazione culturale e, aggiungo, contro il “coma topografico”. Con questa espressione intendo uno stato di incoscienza verso la storia e la geografia dei luoghi in cui si vive.
Almeno due sono i comportamenti essenziali perché la restanza possa produrre effetti positivi: a- si sceglie di abitare stabilmente in un luogo (sono ammesse partenze e ritorni); b- ci si prende cura di quel luogo, si opera per “proteggerlo”, oltre che per “sentirsi protetti” (concetto, questo, caro a Martin Heidegger). Ecco, credo che Dario Brunori può vantare entrambe queste qualità (a parte molte altre) che lo rendono esattamente un restante e/o uno stanziale errante.
Per rendersene conto, oltre alle sue canzoni è bene che i calabresi ascoltino o leggano le tante interviste che Dario ha rilasciato. Lì ho trovato tanti punti in comune con quel che sostengo da anni, ossia che vivere in Calabria non è un’impresa impossibile, come vogliono farci credere in tanti: dai maestri di pensiero come Corrado Augias che sentenziò “la Calabria è perduta”, agli istituti di studi sociologici e statistici che puntualmente ci danno per spacciati. E l’esperienza di Brunori dimostra che costoro avevano torto.
Dario si laurea in economia e commercio a Siena ma ama scrivere testi e musiche. E per realizzare questo suo talento torna in Calabria. Sceglie il paesino della madre, San Fili, appollaiato su un contrafforte della Catena Costiera. Si lascia coinvolgere dal genius loci, trova ispirazione per la sua arte, si mostra come un calabrese “diversamente felice”, come mi piace definire noi restanti non piagnoni. Mette su famiglia e, insieme ad altri amici, crea un’azienda vitivinicola nelle campagne di San Marco Argentano. L’azienda si chiama “Le quattro volte”, come una sua canzone, ma anche come un film di Michelangelo Frammartino sulla Calabria arcaica, i suoi paesaggi, la sua umanità.
La scelta di restare sorprende i suoi intervistatori. Tant’è che la domanda ricorrente è: “perché hai scelto di vivere in un piccolo paese della Calabria?” Come se vivere in Calabria fosse la cosa più strana del mondo. E lui, conscio del fatto che i suoi interlocutori sono intrisi di pregiudizi (“in Calabria non c’è niente”, “la Calabria fa schifo” etc.) risponde con dei paradossi scherzosi.
Poiché ho speso la mia vita nel tentare di conoscere realmente la Calabria e nel divulgare le cose belle che ci sono (senza per questo negare l’esistenza di quelle brutte ed anzi battendomi contro di esse), Dario mi incuriosisce prima ancora che per le sue canzoni proprio per la sua scelta di “abitare poeticamente” la Calabria, come direbbe lo stesso Heidegger, e cioè “con un’etica”, producendo cose buone, belle e vere, utili anche agli altri.
Ed infatti, mentre la gran parte dei calabresi è affetta da una malattia che chiamo “amnesia dei luoghi” e, pur senza conoscere la Calabria, passano dall’eccesso dell’odio a quello dell’idolatria verso essa, Dario pratica più semplicemente quella che io chiamo “okophilia”, ossia l’amore per la propria casa, il proprio luogo, la propria terra. E non nasconde questo suo sentimento, non si dedica a quel vezzo tutto nostrano che è il lamento, non sta a prendersela sempre con la politica e le istituzioni. Ecco perché, secondo me, Brunori piace ai calabresi, oltre che a quelli che calabresi non sono, ma che hanno interesse per una terra per molti versi ancora incognita e che rappresenta, come ho scritto altre volte, l’esotico d’Europa.
E non deve importarci se fra chi lo ama ci sono anche calabresi che si infatuano dei “famosi” per vivere di luce riflessa. Gli intellettuali che si preoccupano di questo e storcono il naso stiano pure sereni: perché Dario, con la sua mitezza, la sua empatia, il suo humor, il suo esempio virtuoso ci aiuterà ad uscire da questa eterna fanciullezza. Perché se è vero che è un artista, egli è anche il prototipo dell’anti-star. Il che, in una società dell’apparire, dell’artificio e della virtualità, potrebbe rivelarsi più salutare, per la gente, di tante ricette colte, di tanti lamenti, di tante medicine spacciate per miracolose.